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La verità sui “cannabis shop” e quello che Salvini non ha chiarito

Alfredo Mantovano

Manda gli ispettori delle asl nei negozi ma non fa niente per impedire l’illegalità della vendita di marijuana

E’ lecito o è vietato vendere in esercizi commerciali, oppure online, i derivati della cannabis? La questione ha manifestato aspetti controversi, subito dopo che la legge n. 242/2016 ha previsto la liceità della coltivazione della cannabis sativa L. E’ emersa con decisione, ed è diventata ennesimo motivo di scontro nell’attuale maggioranza di governo, dopo la circolare del ministero dell’Interno sui controlli da effettuare nei cannabis-shop.

 

 

Facciamo qualche passo indietro per inquadrare il senso e l’effettiva portata che la circolare potrà avere in concreto. La legge del 2016 non lascerebbe incertezze: l’art. 1 circoscrive gli interventi di promozione della coltura della canapa “alla coltivazione e alla trasformazione”, alla valorizzazione dei “risultati della ricerca”, “alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori”, ma non alla vendita dei derivati della cannabis, in particolare delle sue infiorescenze. Nella stessa direzione va l’art. 2, che stabilisce la liceità della coltivazione della canapa senza autorizzazione. L’art. 4 permette all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro e la distruzione della canapa coltivata qualora la percentuale di principio attivo – il cosiddetto Thc – che si riscontri nella media dei campioni prelevati durante un controllo di polizia superi il limite di 0.2. Aggiunge che l’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni date dalla legge per la coltivazione non subisce alcuna sanzione, sempre che il Thc non oltrepassi il limite dello 0.6 per cento.

  

 

Dunque, la lettura delle norme permette di affermare che: a) i limiti sono fissati per la coltivazione, mentre la cessione è vietata; b) la finalità della coltivazione è di tipo ambientale o alimentare o di sfruttamento energetico, non di vendita dei derivati per i consumo; c) in questo quadro il limite di principio attivo che non crea problemi è lo 0.2 per cento; fra lo 0.2 e lo 0.6 per cento l’agricoltore ligio alle regole di coltivazione non incorre in responsabilità, pur se le sue piante sono sequestrabili, mentre oltre lo 0.6 per cento diventa responsabile, e scattano le sanzioni della disciplina sugli stupefacenti.

 

La legge che non liberalizza le canne

La realtà è andata in una direzione diversa. La legge 242 è stata intesa, oltre la sua lettera, come un via libera alla cessione al dettaglio di marijuana purché la percentuale di Thc non superi il limite dello 0.6. Ho seri dubbi che questo commercio, dei cannabis-shop ma pure dell’online, abbia ridotto i profitti delle organizzazioni criminali dedite al traffico di droga. Se, come è conclamato e come attestano coloro che svolgono da decenni il lavoro di recupero dalle dipendenze, l’assunzione dei derivati della cannabis è frequente veicolo per passare a stupefacenti qualificati “pesanti”, la maggior diffusione della cannabis si traduce a medio termine in un incremento degli affari dei trafficanti di qualsiasi tipo di droga. Senza trascurare, restando alle droghe che incautamente la riforma del 2014 è tornata a definire “leggere”, che se io inizio ad assumere marijuana col 0.5 per cento di Thc non mi accontenterò di una percentuale bassa: ben presto cercherò qualcosa di più nel mercato illecito. Senza trascurare – è questo il punto più qualificante – che l’effetto drogante si ottiene in modo sensibile anche con lo 0.5 di Thc.

 

Giovanni Serpelloni, in anni passati capo del dipartimento Antidroga della presidenza del Consiglio, insieme con tossicologi e con esperti della Comunità di San Patrignano, ha svolto di recente interessanti ricerche sull’effetto che ha avuto l’apertura dei cannabis shop e della vendita online, in termini di mutamento di valutazione da parte dell’utente, soprattutto se giovane. I prodotti sono offerti nei negozi senza chiarire che la legge ne permette la cessione non per uso umano, privi di quelle informazioni minime che pure compaiono in abbondanza nei bugiardini dei farmaci contenenti sostanze psicotrope: non si dice nulla per esempio degli effetti collaterali, né che assumendo discrete quantità del prodotto venduto vi è il concreto rischio di risultare positivi ai drug test nei controlli della polizia stradale. E pur quando i negozi vendono in apparenza il materiale vegetale come non destinato a uso umano, spesso lo associano all’offerta di strumenti per assumere per via respiratoria le sostanze vendute e per poterne concentrare il principio attivo.

 

A completare la complessità si aggiunge il contrasto esistente sul piano giurisprudenziale fra chi, dopo la legge del 2016, esclude la liceità di qualsiasi commercializzazione, e chi invece la ritiene ammissibile, quale sviluppo della liceità della coltivazione. La pluralità di orientamenti perfino fra diverse sezioni della Cassazione ha portato a investire della questione le Sezioni Unite, la cui udienza è fissata per il prossimo 30 maggio.

 

In questo quadro si inserisce la circolare del 9 maggio a firma del Capo di gabinetto del ministero dell’Interno. Che, al di là delle letture strumentali in un momento in cui tutto diventa motivo di scontro fra i due partner della coalizione di governo, ha un merito oggettivo: ha richiamato l’attenzione su una vicenda che pareva destinata al silenzio, non solo mediatico. I media ne hanno parlato, si sono ascoltate le voci pro e quelle contro, e questo ha risvegliato tanti, in primis le famiglie.

 

Le criticità della direttiva

Leggendo la direttiva, più d’un passaggio desta però qualche perplessità, proprio nella direzione della prevenzione e del contrasto alla cessione di sostanze droganti che è alla base del documento. I punti qualificanti consistono nella sollecitazione delle forze di polizia: 1) a verificare il possesso da parte dei cannabis shop di tutte le “certificazioni su igiene, agibilità, impiantistica, urbanistica e sicurezza, richieste dalla legge per poter operare”; 2) a fare attenzione alla “localizzazione degli esercizi, con riferimento alla presenza nelle vicinanze di luoghi sensibili quanto al rischio di consumo delle sostanze, come le scuole (…), i luoghi affollati e di maggiore aggregazione, soprattutto giovanile”. Ma i cannabis shop non vanno bene non se non sono in regola dal punto di vista amministrativo, come se fossero bar o trattorie, bensì se cedono impropriamente sostante droganti. Il problema è che vendono derivati della cannabis la cui destinazione non dovrebbe essere il consumo da parte dell’uomo; è che spesso questi derivati superano la soglia di principio attivo; è che altrettanto di frequente i divieti sono elusi procurando al cliente un kit per ricavare la sostanza dai vegetali, anche in percentuali superiori. I controlli nell’ottica del contrasto alla diffusione della droga dovrebbero riguardare questi aspetti, non se il locale è munito di wc o se ha l’impianto elettrico a norma, per i quali la asl basta e avanza.

 

Identico discorso vale per la distanza dai luoghi di maggiore presenza giovanile: se i cannabis shop non cedono per il consumo personale, la distanza non è un problema. La circolare fa l’analogia con la disciplina delle sale scommesse: ma per queste, se sono in regola, non è in discussione la lecita operatività. La prescrizione della distanza è per loro una valutazione di opportunità (a dire il vero un po’ ipocrita): il minore che non vede le sale giochi nei pressi della propria scuola sarebbe essere meno attratto dal frequentarle. Qui l’opportunità non c’entra: o gli esercizi commerciali rispettano la legge, e allora la distanza dalla scuola è irrilevante, oppure la violano, e allora vanno sanzionati, pur se sono collocati in aperta campagna.

 

Per concludere. Le intenzioni poste a base della circolare sono buone, così come l’effetto-risveglio dal torpore sul tema che essa ha provocato. Se però si punta a ottenere il risultato qualche rettifica non guasta. Sul piano normativo: stanno intervenendo le Sezioni Unite, significa che qualcosa nella legge del 2016 non è così chiaro, dirla ancora più esplicita dovrebbe essere il primo obiettivo, non surrogabile da una direttiva. Sul piano della stessa circolare: vendere al dettaglio derivati della cannabis con principio attivo superiore allo 0.2 per cento costituisce un parametro obiettivo cui ancorare i controlli; verificare altro aggira il punto centrale ed espone a un inutile contenzioso, dagli esiti incerti. Sul piano della prevenzione: una grande campagna di informazione, che utilizzi tutti gli strumenti di cui lo Stato dispone, incluso il servizio pubblico tv, fornendo dati scientifici sicuri sugli effetti non “leggeri” dell’assunzione di derivati della cannabis, vale molto più del pur opportuno dibattito acceso attorno alla direttiva del Viminale.

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