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L'abuso di oppioidi per scappare dalla realtà

Ferdinando Cancelli

Una piaga tutta occidentale. Il consumo medio negli Stati Uniti è passato da 100 mg pro capite all’anno del 1997 agli 800 mg di oggi

Qualche tempo fa visitando la città di Boston rimasi colpito da alcuni manifesti affissi ai pali della luce e ai semafori: avvertivano che la prima causa di morte accidentale per gli adulti era l’overdose di medicinali, in particolare di oppioidi, tra i farmaci più prescritti per la terapia del dolore. Un recente articolo del New England Journal of Medicine torna sull’argomento sottolineandone la drammatica attualità e cercando di comprendere i complessi legami tra utilizzo di oppioidi, overdose e suicidio.

 

Gli autori, entrambi ricercatori del dipartimento di psichiatria dell’Università del Michigan, mostrano con dati aggiornati un fenomeno in netta e costante crescita: le morti per suicidio e overdose non intenzionale negli Stati Uniti sono passate da 41.364 nel 2000 a 110.749 nel 2017, cioè sono quasi triplicate. Il fenomeno, se correttamente inquadrato, permette non solo di comprendere alcuni aspetti delicati del trattamento medico del dolore ma di guardare da una prospettiva diversa alcuni gravi problemi della società americana e, più in generale, occidentale.

 

L’uso di farmaci potenzialmente letali come gli oppioidi (morfina, ossicodone e fentanyl solo per citare i principali) – si legge nell’articolo – ha una relazione chiara e diretta con il rischio di overdose non intenzionale” e un’implicazione meno conosciuta anche con il rischio suicidario. Il consumo medio di oppioidi negli Stati Uniti è passato da 100 mg pro capite all’anno a 700 mg dal 1997 al 2007 e si attesta attualmente intorno agli 800 mg pro capite: tanto per dare un’idea in Italia (ultima in Europa per prescrizioni di farmaci oppioidi) siamo intorno ai 2 mg pro capite all’anno. Quali sono però i veri motivi alla base dell’aumento delle morti per suicidio e per overdose non voluta? Le teorie prese in considerazione nello studio sono due. La prima vedrebbe semplicemente nella maggior tendenza alla prescrizione di oppioidi da parte dei medici il motivo alla base di un più disinvolto e rischioso consumo da parte dei pazienti, un consumo che tende a estendersi anche all’eroina e alle droghe sintetiche quando i medici tentano una progressiva diminuzione delle dosi prescritte.

 

La seconda teoria, decisamente interessante e supportata da recenti studi, viene detta delle “morti per disperazione” (“Deaths of Despair”). Si parte dall’evidenza di un netto aumento dei suicidi e delle overdosi tra i cittadini non ispanici e bianchi di mezz’età e si ipotizza un legame con le crescenti difficoltà economiche della working class americana. In pratica l’eccesso nell’uso di oppioidi sarebbe legato al tentativo di far fronte alla mancanza di reali opportunità di crescita professionale e all’aumento delle disparità economiche che sempre più caratterizzano la società statunitense. L’uso sproporzionato di farmaci oppioidi potrebbe poi peggiorare ulteriormente i sintomi depressivi e spingere verso “l’isolamento sociale, i problemi legali, la disoccupazione” e, infine, verso il suicidio. Organismi come il National Strategy for Suicide Prevention o lo State Targeted Response to the Opioid Crisis cercano di mettere a punto idonee strategie per contrastare il fenomeno ma è evidente che se nel caso della prima teoria potrebbe essere sufficiente un rinforzo della legislazione che regola la prescrizione e il consumo di farmaci, nel secondo caso, quello delle “morti della disperazione”, si impone una riflessione che va ben al di là degli aspetti medici e che deve coinvolgere scelte di larga scala politiche ed economiche.

 

Come dire: l’uomo cerca rifugio in ciò che la società più facilmente gli offre, gli oppioidi come una via di fuga per di-vertere dal male sociale diffuso. Non sempre però quello che Pascal definiva “le divertissement” è privo di rischi e la lezione americana parrebbe già da meditare anche in Europa prima che anche qui diventi realtà.

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