Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Di Maio, tutto un bluff

Valerio Valentini

Gli ultimatum del vicepremier sulla Tav sono fumisterie: le scappatoie tecniche tutte improbabili. Buio totale in casa M5s

Roma. Sbuca dalla porta laterale della sala stampa un po’ ingobbito, ripiegato sulle sue stesse incertezze. E insieme a lui, a Luigi Di Maio, con la scompostezza della scolaresca in gita, arrivano anche i suoi collaboratori: l’ex compagno di scuola Dario De Falco, Alessio Festa e Sara Mangieri, Augusto Rubei e l’irrinunciabile Silvia Virgulti, Rocco Casalino in felpa e jeans strappati; Pietro Dettori, l’uomo di Rousseau e di Casaleggio, e Dario Adamo, vecchi compagni di università che dieci anni fa, nel loro Erasmus spagnolo, giravano documentari amatoriali sulla Nutella, e ora tengono in mano la comunicazione di mezzo governo. Un gabinetto di guerra che sembra preannunciare l’ora delle decisioni irrevocabili. E invece, almeno per il momento, è tutto un bluff.

 

Lo si capisce assai presto che la pistola che Di Maio vorrebbe porre sul tavolo, per scongiurare la sua capitolazione sulla Tav, è scarica. Lo si capisce quando, col tono più implorante che ultimativo, davanti ai cronisti convocati a Palazzo Chigi, lamenta che “non mi si può dire ‘ci vediamo lunedì, arrivederci’. Questo deve essere un fine settimana di lavoro”. Parla a Matteo Salvini, in effetti, che però a quell’ora sta già per imbarcarsi su un aereo, destinazione Milano, e che la mattina ha chiamato pure lui a raccolta la stampa, ma solo per parlare di future leggi a difesa delle donne, salvo poi sfogarsi, in un vicolo a due passi dal Pantheon, coi suoi addetti alla comunicazione (“Da lunedì comincio a fare il fenomeno, perché ora mi sono veramente rotto i c…”), preannunciando evidentemente una nuova offensiva mediatica che lo riscatti dall’immagine un po’ appannata che il capo della Lega sta dando di sé, in questi giorni di tatticismi e inconcludenze politiche. Non la cambia, Salvini, la sua agenda. Non per ora, almeno: “Un fine settimana coi miei bambini, che il papà lo vedono più in tv che dal vivo”. E come lui, a tenersi lontano dalla palude romana ci prova anche Giancarlo Giorgetti, che alle nove di mattina parte da Fiumicino alla volta di Grottaglie, per una visita alla base aerea tarantina che è però, in fondo, anche una buona scusa per dire ai grillini: “Volete fermare la Tav? Provate a sbrogliarvela voi”.

 

E loro, in effetti, ci provano. Per tutto il giorno Di Maio si consulta coi suoi fedelissimi, invitati a restare a Roma: i sottosegretari Andrea Cioffi e Stefano Buffagni – pure loro in prima fila davanti al leader che parla in sala stampa – mostrano sul viso la tensione accumulata in ore di consultazioni convulse. E quello che non può chiarirlo coi presenti, il vicepremier lo chiede ai tecnici del Mit, e alla sottosegretaria all’Economia Laura Castelli, e al deputato valsusino Luca Carabetta, tra i più informati sul dossier. E ogni volta si inventano nuove possibili soluzioni, e per ognuna se ne sperimenta la fattibilità. Così, all’impronta: tutti costretti ad affrontare col fiato corto dell’ultimo minuto problemi che si sapeva da mesi che si sarebbero presentati. E’ dal luglio scorso che questi 2,3 miliardi di bandi vengono tenuti in sospeso, e ora si escogitano arzigogoli giuridici per bloccarli.

 

Il governo francese ha fatto sapere che di bloccarli non se ne parla. Va bene la ridiscussione, va bene il confronto, ma lunedì si parte e si mandano avanti i cantieri. “Ho chiesto al premier Conte di lavorare affinché lunedì non vengano vincolati i soldi degli italiani a un’opera da ridiscutere”, dice Di Maio. Il che, tradotto, significa che proverà a bloccare lo stanziamento delle risorse connesso al lancio della procedura per la selezione delle imprese da coinvolgere nei lavori del tunnel di base. Si tratta di un fondo che fa capo al Mit. Dunque Toninelli può bloccarlo di sua iniziativa, con un semplice decreto ministeriale? “Forse sì, lo verificheremo”, rispondevano li assistenti del capo del M5s. Ma se anche si potesse rallentare l’erogazione dei soldi, questo non comporterebbe la revoca dei bandi: le risorse dovranno essere davvero spese, di fatto, nel corso del prossimo anno, quando i bandi diventeranno operativi a tutti gli effetti e bisognerà pagare le imprese appaltatrici. L’altra via, più incisiva, sarebbe quella di un decreto emanato dal presidente del Consiglio che sospenda davvero il bando di gara con cui raccogliere le candidature delle imprese interessate: ma a questo punto, come già da tempo fanno notare dagli uffici del Mef, ci sarebbe un possibile problema di coperture, visto che si dovrebbe rinunciare ai 300 milioni di finanziamenti europei, rischiando di restituirne poi fino a 813 di quelli già ricevuti per il tunnel di base. Dove trovarli quei soldi? Mistero. Senza contare, poi, che tra il vaglio della Ragioneria e la pubblicazione in Gazzetta, un eventuale dpcm di questo tipo richiederebbe tra i tre e i sette giorni per essere emanato. Troppi, evidentemente.

 

Lo sa in fondo anche Di Maio, che infatti si guarda bene dal porre il veto sul lancio effettivo dei bandi. “Io voglio però avere la garanzia – ha detto ieri – che si faccia sul serio: se si impegnano i soldi pubblici si deve poter ridiscutere integralmente l’opera”. E qui le velleità del vicepremier prendono la forma della fumisteria giuridica: significherebbe, in sostanza, apporre una postilla all’avviso dei bandi di gare in cui si afferma la possibilità che, in corso d’opera, i lavori da effettuare potrebbero cambiare anche radicalmente. Cioè: si chiede alle imprese se sono interessate a scavare dei tunnel che poi potrebbero essere invece interrotti, ad allargare cantieri che verrebbero poi chiusi. Insomma, più che la giurisprudenza, qui il problema è il buon senso.

 

Di Maio non s’arrende, comunque. Dice che “se c’è l’accordo politico, la soluzione tecnica si trova”. E però a rendere inefficaci le sue invettive c’è anche lo statuto di Telt, la società italo-francese incaricata di realizzare l’opera. Il cda può deliberare solo a maggioranza dei presenti: e dei dieci consiglieri, cinque sono francesi (tra cui il presidente), cinque italiani (e tra questi c’è il direttore generale, Mario Virano). Anche volendo, al massimo l’Italia potrebbe esercitare, quindi, solo un’opera di ostruzionismo. Ammesso, però, che i cinque commissari vogliano davvero prendersi la responsabilità di rischiare in solido, e in prima persona, per le ripercussioni di una decisione che li spingerebbe ad agire contro lo statuto della società, e forse anche contro la legge italiana. Tutte osservazioni che Virano si è premurato di fare a Conte, giovedì. Per mettere in pratica un’azione di rottura unilaterale, dunque, il governo, d’accordo con Fs e col consenso del Mef, dovrebbe trovare cinque teste di legno disposte a rischiare un’imputazione per danno erariale. Toninelli ha avuto nove mesi per attuare questo spoils system: e nonostante le pressioni del M5s piemontese, non ha voluto. Difficile che lo faccia in un fine settimana, anche ammesso che sia un fine settimana di lavoro.

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