Il premier Giuseppe Conte durante la conferenza stampa sulla Tav (foto LaPresse)

Il governo azzeccagarbugli non sa come dire che la Tav si deve fare. I bluff di Conte

Valerio Valentini

Il premier chiede soldi a Parigi e Ue. L’ultima mediazione possibile: i bandi partono, ma possono essere revocati in ogni momento

Roma. Chissà che alla fine anche Matteo Salvini, sempre così poco incline all’autocritica, non dovrà rimangiarsele, quelle parole sbattute in faccia a Danilo Toninelli nella notte tra mercoledì e giovedì, quella del lungo vertice a Palazzo Chigi. “A me dei francesi non me ne frega un accidente”, disse l’improvvido vicepremier al ministro dei Trasporti che insisteva nel volere ragionare sull’analisi costi-benefici internazionale, e non solo su quella sovranista, come intendeva fare invece il capo della Lega per potere dimostrare che “la Tav costa più bloccarla che farla”. Alla fine, invece, è proprio all’odiato Macron, che il governo gialloverde è costretto a ricorrere: col tono scomposto di chi prova a porre ultimatum ma in realtà chiede un aiuto. Che poi, non a caso, è proprio il tono che assumerà Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa convocata a sorpresa a Palazzo Chigi nel pomeriggio e che si risolverà in una lunga dissertazione inconcludente, che non scioglie il nodo dirimente, e cioè quello dei bandi da lanciare entro lunedì per non rischiare tra i 300 e gli 800 milioni di euro di sanzioni da parte di Bruxelles e una figuraccia internazionale. “E’ d’obbligo procedere a un’interlocuzione con i partner di questo progetto, Francia e Ue, per condividere i nostri dubbi”, dice Conte. E fa mostra di sicumera, gonfia il petto quando afferma che ci andrà lui “a rappresentare l’intero governo in questa interlocuzione”. Ma in realtà neppure il premier sa bene come venirne fuori da quello che lui stesso definisce uno “stallo”.

 

Deve averlo capito anche Mario Virano, mite architetto piemontese a capo di Telt, quando, intorno alle undici di mattina di ieri, mentre organizzava insieme ai colleghi francesi il cda decisivo dell’11 marzo per lo sblocco dei bandi, si è visto convocare in tutta urgenza dallo staff del premier, dovendo prendere il primo volo per Roma. E se ne è accorto anche l’ambasciatore francese Christian Masset, che più o meno alla stessa ora varcava la soglia di Palazzo Chigi per essere ricevuto, però, non da Conte – che lo ha appena salutato nel cortile, prima di dirigersi verso Montecitorio – ma dai suoi consiglieri diplomatici.

 

Nel frattempo, nelle stanze del governo, in un clima di sospetti reciproci e veti incrociati, succede un po’ di tutto, compreso l’arrivo della sottosegretaria grillina all’Economia Laura Castelli che, insieme al suo fido collega di governo e di movimento Simone Valente, va da Conte e Giancarlo Giorgetti a pretendere che si sblocchi il decreto per formalizzare la candidatura di Torino per le Atp finals di tennis per il 2021-2025: una premura, per una questione comunque molto sentita nel capoluogo sabaudo, che a qualcuno pare anche un espediente per placare le ire dei consiglieri comunali di Chiara Appendino, già pronti a fare cadere il loro sindaco in caso di via libera ai bandi.

 

Intanto Conte si chiude nelle sue stanze e nel suo umore insondabile perfino allo scandaglio dei due vicepremier: al punto che un ministro leghista, passando per Piazza Colonna, sospira il suo scetticismo. “Spero solo che non venga fuori una soluzione all’italiana”. E per la prima volta si registrano i primi sbuffi d’insofferenza anche verso i tentennamenti del capo: “Qui siamo tutti soldati. Ma io la faccia col cavolo che ce la metto, se Matteo ci dice di andare in Piemonte o Lombardia a difendere degli accrocchi da Azzeccagarbugli”. E però è proprio a qualcosa di simile che, a sentire chi ci ha parlato negli ultimi giorni, il premier starebbe lavorando, con l’intenzione di ottenere un parere giuridico, redatto magari dall’avvocatura dello stato, per potere offrire a entrambi i partiti di governo, tuttora fermi su posizioni opposte, una via d’uscita. E cioè, in sostanza: i bandi partono, ma possono essere revocati in ogni momento. Per farlo, Conte ha bisogno di tempo. E anche per questo ieri ha chiesto a Virano se per Telt sarebbe possibile rimandare a fine marzo il lancio dei bandi, sentendosi però rispondere che si tratta di una strategia tecnicamente impraticabile.

 

Ma il tutto, oltre che una fuga dalla responsabilità di governo, appare anche come un’evasione dalla realtà. Che è fatta di leggi, procedure, e tempi non modificabili a piacimento. La ridefinizione delle quote di spesa, innanzitutto: Conte vi allude con una sufficienza che non appare sostenibile, alla luce di un trattato internazionale ratificato dal Parlamento che stabilisce che, degli 8,3 miliardi stanziati per la realizzazione del tunnel di base, “la chiave di ripartizione delle spese reali è del 57,9 per cento per la parte italiana e del 42,1 per cento per la parte francese, al netto del contributo dell’Unione europea”.

 

L’accordo, apparentemente squilibrato, era giustificato dal fatto che Parigi sarebbe poi chiamata a realizzare un tratto nazionale, tra Saint-Jean-de-Maurienne e Lione, molto più lungo di quello che va da Susa a Torino. “E però Conte è rimasto molto stupito nell’apprendere che la Francia non ha ancora speso nulla, o quasi, nella porzione di sua competenza”, racconta chi lo ha visto rimuginare a lungo sull’analisi costi-benefici nel vertice notturno di mercoledì. Come che sia, però, andrebbe modificato il trattato, ora, per ridiscutere le quote di partecipazione. E i francesi non sembrano affatto interessati, a meno che non intervenga Bruxelles ad aumentare il proprio contributo. Anche questo, in ogni caso, andrebbe stabilito prima di lunedì, visto che Telt non potrebbe certo bandire 2,3 miliardi di opere, seppure in una semplice operazione di selezione delle imprese, a prescindere da tutte le variabili messe in discussione all’ultimo momento da Conte. Che comunque, con toni molto apprezzati da Di Maio, ha difeso come “plausibile e fondata” l’analisi del professor Marco Ponti e della sua squadra di tecnici, dicendosi lui stesso assai poco convinto dalla convenienza della Tav. Una presa di posizione considerata troppo vicina alla sensibilità del M5s, a giudizio di Salvini. Che, infatti, dapprima ha diramato il solito divieto di commentare a tutti i suoi parlamentari, e poi ha affidato a una nota anonima il suo malessere: “Rivedere e migliorare un progetto di vent’anni fa si può, bloccarlo e perderci miliardi di euro no”.

 

E però, a sentire i Cinque stelle valsusini, quelli che da giorni sono tartassati dai messaggi incarogniti dei loro elettori, è ancora tutto da discutere. “Un passo avanti, che certifica comunque come Conte si sia convinto definitivamente della bontà dell’analisi costo benefici”, si limita a dire il deputato Luca Carabetta. “Mi sembra presto per cantare vittoria”, aggiunge la senatrice Elisa Pirro.

Ed è una cautela che, paradossalmente, viene condivisa anche al Quirinale, dove pure Sergio Mattarella da sempre vigila sulla necessità di rispettare un trattato internazionale qual è quello alla base dalla Tav, e dove però, dice chi conosce bene il dossier, “ancora non è successo niente anche se sembra succedere di tutto”.

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