Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Ipocrisia autonomista

Valerio Valentini

Salvini dovrebbe dire che questa autonomia è poca cosa, ma non può. Di Maio ora si oppone, ma ieri no

Roma. Uno sa che più di tanto non potrà opporsi, essendo finora stato – per sprovvedutezza o per convenienza – d’accordo. L’altro è consapevole che per dissipare i malumori dell’alleato riottoso dovrebbe ammettere che ciò di cui si parla è poca cosa, in verità, ma facendolo sbugiarderebbe se stesso. E così, la doppia cattiva coscienza di Luigi Di Maio e Matteo Salvini sulla questione delle autonomie fa sì che anche questo progetto – come la Tav, come le chiusure domenicali, solo per restare agli ultimi giorni – venga lasciato in sospeso, disperso nella nebulosa confusa degli “argomenti sul tavolo” che forse verrà davvero affrontato – sogghignano i grillini – “solo dopo le Europee”.

  

  

“Ci servirà un incontro politico”, ha detto il segretario del Carroccio giovedì sera, all’uscita di un Consiglio dei ministri abbastanza tribolato, in cui gli uomini di governo grillini avevano evidenziato, tra le altre, soprattutto due critiche. Da un lato l’esigenza di privilegiare i fantomatici “Lep”, i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero la quantità minima di servizi che vanno erogati in ciascuna regione. “Se prima non definiamo questi, parlare di fabbisogni standard è impossibile”, protestano nel M5s. “Impossibile – ribattono i tecnici del ministero degli Affari regionali – è fissarli a priori”. Come che sia, nella bozza d’intesa portata da Erika Stefani a Palazzo Chigi, giovedì, i Lep sono contemplati come un elemento necessario proprio nella determinazione dei fabbisogni standard. L’altra istanza su cui i grillini si sono mostrati risoluti è stata quella di permettere alle Camere di emendare il testo che verrà elaborato dalla conferenza tra il governo e le regioni autonomiste.

   

La strategia della Lega, a questo punto, diventa quella di non concedere alibi alle proteste strumentali degli alleati. Lo si è capito quando la Stefani, in una dichiarazione rilevatrice, ieri è sembrata venire incontro alle richieste del M5s: “Sul tema delle autonomie preciso che un coinvolgimento condiviso del Parlamento ci sarà. Ribadiamo il nostro totale rispetto del percorso indicato dalla Costituzione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei bisogni di tutti i territori”. Guarda caso, proprio le due critiche sollevate dai grillini. D’altronde, quello che Salvini vuole evitare è che il discorso si esasperi – come in realtà sta già avvenendo, tra denunce di “secessione” e paventate “morti dello stato” – e si sclerotizzi intorno alla possibile incostituzionalità della legge, col rischio di un intervento del Capo dello stato (che in effetti segue la vicenda con particolare attenzione). Al contempo, però, ciò che Giancarlo Giorgetti – lui che, nella scorsa legislatura, è stato per cinque anni presidente di una malgé soi inconcludente commissione bicamerale sul Federalismo fiscale, e che di tentativi abortiti in questa direzione ne ha già visti tanti, dall’inizio del nuovo millennio – teme, è che alla fine anche questo disegno dell’autonomia s’impaludi nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama, finendo in un nulla di fatto.

 

Del resto, per quanto la dissimulino, l’ansia di avviare davvero la procedura, i due leader leghisti devono senz’altro avvertirla, non fosse altro che per onorare una promessa fatta già da tempo a Luca Zaia. Il presidente del Veneto se ne resta sornione, ad attendere che ciò su cui si è giocato la propria credibilità politica col suo popolo, si realizzi. Ha evitato per ora qualsiasi forma di rimostranza, ha stimolato senza mai mostrare una insofferenza che pure avverte, di fronte alle lungaggini romane. E anche ieri, di fronte all’ennesimo ritardo, da un lato ha ribadito la sua fiducia nell’operato del governo, dall’altro ha sguinzagliato i suoi uomini in Consiglio regionale per reiterare, una volta di più, la solita minaccia: o si conclude l’iter, oppure “sul governo calerà il sipario”.

   

In verità, Salvini avrebbe una possibilità per placare le ansie del M5s: potrebbe dire la verità. E dire, cioè, che questo progetto delle autonomie è in realtà una versione assai annacquata del sogno nordista. Non c’è infatti la concessione dei nove decimi di residuo fiscale al Veneto, inizialmente richiesta da Zaia, non c’è neppure la possibilità di procedere attraverso una legge delega che darebbe al governo la possibilità di scrivere a proprio piacimento la legge. A ben vedere, non c’è neppure l’applicazione di un vero federalismo fiscale. E tuttavia, ammettere ciò, equivarrebbe a svilire l’intera portata della riforma, e quindi sgualcire una bandiera che invece, a tempo debito, Salvini vorrà sventolare alta tra la gente del Veneto, per evitare possibili accuse di tradimento.

 

D’altro canto, neppure Di Maio potrà – e i leghisti lo sanno – esagerare nelle critiche all’autonomia. Significherebbe, anche per lui, contraddirsi in modo clamoroso. Fu lui, infatti, a intervenire nell’estate del 2017 per risolvere una faida interna al M5s veneto, diviso tra chi, come Federico D’Incà o Mattia Fantinati, spingeva per sostenere il Sì al referendum autonomista indetto da Zaia, e chi invece predicava il sabotaggio della consultazione. Alla fine, fu un post sul Sacro blog a dettare la linea: sostegno pieno al referendum di ottobre. Anche in Lombardia, d’altronde, il M5s si era schierato con l’allora presidente Roberto Maroni in favore della chiamata alle urne: a garantire alla Lega i voti necessari per indirla, nell’Aula del Pirellone, fu quello Stefano Buffagni che ora, per una strana ironia del destino, si ritrova a fare il vice della Stefani al ministero per gli Affari regionali e a dovere cercare spesso di frenare le fughe in avanti del Carroccio.

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