Un'udienza pubblica della Corte Costituzionale (foto LaPresse)

La Corte Costituzionale alla prova del ricorso del Pd sulla manovra

Carlo Fusaro

Il 9 gennaio la Consulta dovrà decidere sull'ammissibilità del conflitto di attribuzione sollevato dal gruppo dei Democratici al Senato e da 37 senatori a titolo individuale. Ecco cosa c'è in gioco

Il 28 dicembre scorso il senatore Marcucci, a titolo personale “e quale capogruppo” Pd, nonché altri 36 componenti dello stesso gruppo, hanno presentato alla Corte costituzionale un ricorso per conflitto di attribuzione perché la manovra di bilancio, approvata da quel ramo del Parlamento il 23 precedente, non poteva essere messa in votazione a poche ore dalla presentazione del cosiddetto maxiemendamento 1.900 di 270 pagine e circa 1100 commi, interamente sostitutivo dell'articolo 1 del testo votato alla Camera l'8 dicembre e discusso in surplace al Senato fino a quel momento (il relativo dossier del Senato, 700 pagine, è datato 23 dicembre: dopo che si era già votato!), senza esame da parte della Commissione e senza presentazione e discussione di emendamenti (al nuovo testo).

 

Il merito, come si dice nel linguaggio dei tribunali, cioè la questione di diritto sostanziale sottoposta al giudice, non sembra lasciare molti dubbi, anche se la Corte è sempre stata prudente nel pronunciarsi su aspetti procedurali interni del Parlamento: il procedimento legislativo è disciplinato dai regolamenti delle due Camere che la Corte ha sempre escluso possano essere oggetto di proprio giudizio. Ma la Corte si è dichiarata competente a giudicare violazioni dirette delle norme costituzionali nel procedimento legislativo: e non mi riesce di vedere come si possa pensare che l'articolo 72 della Costituzione comma 1 (che impone l'esame previo in Commissione e il voto articolo per articolo prima della votazione finale) e comma 4 (che impone la procedura del comma 1, e non quelle abbreviate, “per i disegni di legge... di approvazione di bilanci e consuntivi”), non sia stato clamorosamente violato.

 

È vero che forzature ci sono state in passato, ma questo vuol dir poco: primo, perché è proprio il ripetersi della forzatura che fa nascere l'esigenza di censurare una violazione (per esempio, la reiterazione dei decreti-legge andò avanti per decenni finché la Corte si “stancò” e, nel 1996, la vietò); secondo, perché il salto di qualità (rispetto alle forzature passate) è stato netto: nessun esame in commissione e compressione dei tempi di “esame” (quale esame?) oltre ogni ragionevolezza. 

 

L'iter è durato, dalla presentazione dell'emendamento 1.900 al voto finale, da otto a tredici ore: cinque in Commissione, il resto in aula; in realtà modifiche all'emendamento 1.900 venivano presentate dal governo fino all'ultimo, sicché, fra interruzioni, varie, la Commissione si riuniva in tutto circa 70 minuti; in Aula la discussione (sulla fiducia posta dal governo) sarebbe durata circa 4 ore con dichiarazioni di voto dalla mezzanotte, e voto finale alle tre del giorno dopo. A esser generosi, ad ogni comma del maxi-emendamento (equivalente a un articolo) sono stati dedicati, in media, meno di quattro secondi in Commissione (ma in realtà in Commissione il testo non è stato esaminato affatto per le modifiche ulteriori del governo e la formulazione del parere) e 13 secondi in Aula. Ma l'Aula ha discusso solo della manovra nel suo complesso e della fiducia al governo. Bisogna tener conto del fatto che il tempo è in Parlamento per le opposizioni risorsa fondamentale: grazie alla quale esse possono non già tanto modificare i testi governativi quanto criticarli e presentare la loro proposta alternativa. È dunque una risorsa che non può essere impunemente sottratta integralmente!

 

Ne riparleremo, auspicabilmente: il 9 gennaio la Corte dovrà, prima di tutto e solo, stabilire, in camera di consiglio e senza contraddittorio, se il conflitto sollevato è ammissibile. Non è che uno si alza la mattina e solleva un conflitto di attribuzione obbligando la Corte a pronunciarsi. I conflitti di cui l'articolo 134 della Costituzione parla sono “fra poteri dello Stato”. La legge del 1953 che disciplina organizzazione e funzionamento della Corte specifica: a) che deve trattarsi di conflitto tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono (il cosiddetto profilo soggettivo); b) che il contrasto (“non tocca a te” fare questo o farlo in quel modo; “tocca a me fare questo o quello”) deve riguardare le attribuzioni determinate per i vari poteri da norme costituzionali o che comunque abbiano rilevanza e tono costituzionale (il cosiddetto profilo oggettivo).

 

In 60 anni la Corte costituzionale ha avuto modo di interpretare queste disposizioni sotto entrambi i profili. Dei due, quello più delicato è il primo: ed è ciò di cui più si discute in queste ore. Infatti, è difficile sostenere che l'eventuale sottrazione della cosiddetta manovra di bilancio all'esame di un ramo del Parlamento, il Senato (diverso il discorso per la Camera dei deputati dove una parvenza di esame vi è forse stata, pur nella compressione dei tempi, su un testo almeno materialmente conoscibile), necessario presupposto della votazione, non sia questione di alto rilievo costituzionale: tanto più in quanto esempio estremo di un fenomeno degenerativo già manifestatosi, in forme attenuate, in precedenza.

 

Quanto al profilo soggettivo, la Corte ha mostrato nel tempo notevole apertura. Per esempio riconoscendo la legittimazione a sollevare il conflitto, all'interno del potere esecutivo, non solo al presidente del Consiglio (previa delibera collegiale), ma anche al ministro della Giustizia (cui la Costituzione riconosce alcune dirette attribuzioni: per esempio, promuove il giudizio disciplinare contro i magistrati), e a tutti i ministri nei confronti dei quali sia stata presentata mozione di sfiducia individuale (prevista dai soli regolamenti parlamentari, non dalla Costituzione, se non implicitamente). Nell'ambito del potere giudiziario la Corte è stata altrettanto generosa, riconoscendo la legittimazione al conflitto a: giudici ordinari e speciali (tutti quelli che pronunciano sentenze), pubblici ministeri (per l'esercizio dell'azione penale), tribunale dei ministri. Anche il Consiglio superiore della magistratura (in relazione alla sua competenza sullo status dei magistrati). Quanto al presidente della Repubblica la Corte ha riconosciuto la legittimazione soggettiva agli ex-presidenti (Cossiga). La Corte, infine, è andata oltre lo Stato apparato, riconoscendo la qualifica di potere dello Stato ai comitati promotori di referendum (fino a proclamazione dell'esito). Venendo al potere legislativo, è pacifica la legittimazione a stare in conflitto delle due Camere (dunque dei rispettivi presidenti), ma anche delle Commissioni in sede legislativa (possono esaminare e votare una legge al posto dell'Aula), delle Commissioni di inchiesta e perfino della Commissione per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi (che in Costituzione non c'è, a differenza delle precedenti). Per i singoli parlamentari da un lato la Corte, anche in recenti decisioni, ha finora escluso, nei casi sollevati, che possano essere legittimati, dall'altro in più occasioni si è riservata di decidere diversamente in altri casi, qualificando come "impregiudicata" la questione se siano configurabili attribuzioni di potere costituzionale del singolo parlamentare (in ultimo si veda la ord. 277/2017). La strada dunque non è sbarrata.

 

Il ricorso Marcucci ed altri propone due categorie di soggetti (il gruppo Pd in quanto tale; trentasette singoli senatori) quali promotori del conflitto, e ben cinque quali convenuti (il governo; il presidente della Commissione bilancio; la Conferenza dei Capigruppo; la presidente del Senato; il Senato nel suo complesso). Per l'ammissibilità è indispensabile presupposto che la Corte giudichi legittimati almeno uno dei promotori e uno dei destinatari. Non mi pare che, quanto ai secondi, vi dovrebbero essere difficoltà a riconoscere il necessario profilo soggettivo alla presidente del Senato, anche in quanto rappresentante del Senato nel suo complesso; qualche dubbio avrei sul presidente della Commissione bilancio e sulla Conferenza dei capigruppo; tenderei ad escludere il governo (Senato e Camera avrebbero potuto e dovuto darsi tempi ragionevoli di esame; ciò avrebbe portato all'esercizio provvisorio, ma con effetti più che altro politici: la Costituzione, non a caso, lo prevede proprio per casi del genere, articolo 81 comma 5 Costituzione).

 

A me pare che la via maestra sarebbe quella di riconoscere, in casi come questo, la legittimazione al conflitto ai singoli parlamentari (rafforzata, nel nostro caso, dal fatto che si tratta di un numero rilevante di senatori: numero che supera quel decimo di essi cui la Costituzione e il regolamento del Senato riconoscono decisive attribuzioni). È possibile però che giustificabili preoccupazioni di rilievo costituzionale continuino a consigliare alla Corte prudenza: anche se la vicenda è del tutto peculiare e anche se l'esperienza insegna che certe decisioni innovative rispetto a precedente giurisprudenza possono provocare non già controproducenti contraccolpi (una valanga di ricorsi come dopo lo sfondamento di una diga: in parte è successo dopo le audaci decisioni di ammissibilità in materia di leggi elettorali), quanto imporre ai soggetti costituzionali coinvolti comportamenti più rispettosi della lettera e dello spirito della Costituzione (penso ancora ai decreti legge reiterati all'infinito: la prassi, interrotta dalla sentenza della Corte da un giorno all'altro, non ha lasciato rimpianti). Al riguardo la sola ammissibilità, a ben vedere, potrebbe bastare.

 

Se violazione dell'articolo 72 commi 1 e 4 c'è stata, la menomazione di attribuzioni previste direttamente da quelle specifiche norme costituzionali è stata subita sia dal Senato nel suo complesso sia da ciascun senatore impossibilitato a concorrere al procedimento legislativo. Il fatto è che i moderni parlamenti, specie nei regimi parlamentari, sono caratterizzati dal rapporto fiduciario, dunque da una stretta continuità fra il governo e la sua maggioranza. Non c'è, sotto questo riguardo, alcuna separazione, ma anzi confusione fra i poteri, a voler intendere il concetto alla maniera del costituzionalismo di due secoli fa. La vera separazione fra i poteri corre, e non da oggi, all'interno di ciascuna Camera e vede da una parte la maggioranza e il suo governo, uniti nel perseguire il medesimo indirizzo politico, dall'altro le opposizioni o minoranze portatrici di indirizzi politici diversi e alternativi. Salvo ritenere che l'eventuale stravolgimento di ogni regola costituzionale in tema di procedimento legislativo possa passare senza sanzione sol che la maggioranza sia disposta a tollerarlo (e magari deliberatamente lo provochi), non vi è chi non veda che è fondamentale esigenza costituzionale consentire a chi è minoranza di rivolgersi alla Corte, denunciando la menomazione di attribuzioni costituzionali proprie, ancorché coincidenti con quelle della Camera nel suo complesso, in quanto - nello specifico caso - potere autonomo.

 

Tanto più questa legittimazione al conflitto dovrebbe essere riconosciuta, per estensione, a un intero gruppo parlamentare, specie se di opposizione. In Costituzione di gruppi parlamentari si parla solo in due punti: in entrambi i casi con riferimento all'esigenza che enti esponenziali delle due assemblee (le commissioni in sede legislativa e le commissioni di
inchiesta), dotati di poteri propri, siano composti in modo da rispecchiare la proporzione fra partiti voluta dagli elettori. È un fondamentale riconoscimento di rappresentatività. Ma se la Costituzione è parca, il ruolo del gruppi nell'ordinamento costituzionale italiano è di primaria rilevanza: si pensi alle consultazioni presidenziali in vista della formazione dei governi; si pensi al fatto che i gruppi parlamentari sono l'ossatura stessa dell'organizzazione e strumento indefettibile di funzionamento delle due Camere: esaltato dopo il varo, nel 1971, dei primi regolamenti dall'entrata in vigore della Costituzione, tutti fondati sul ruolo dei gruppi. Così è, del resto, in tutti i parlamenti contemporanei.

 

In Senato, da questa legislatura, ciò vale ancor più. La deroga prevista per i soli senatori a vita (in quanto non legati da rapporto rappresentativo), conferma l'obbligo per ogni senatore, proprio delle Camere italiane, di appartenere a un gruppo: si “esiste” in quanto componenti di un gruppo; giunte e commissioni non si formano prima che siano costituiti i gruppi; i gruppi seguono regole di amministrazione e contabilità di rilevanza in parte esterna; si è in una commissione su designazione di un gruppo; si è sostituiti in commissione se il gruppo decide di essere meglio rappresentato da altro senatore; si decade da talune cariche nel caso in cui si cambi gruppo. E i capigruppo, in quanto rappresentanti del proprio gruppo, concorrono a tutte le decisioni in materia di lavori di commissione e d'Aula. Dal punto di vista politico, i gruppi al Senato devono corrispondere per l'intera legislatura alle liste presentate alle elezioni; e, infine, dato essenziale, vengono apertamente distinti in gruppi di maggioranza e gruppi di opposizione: alcuni organi interni devono essere presieduti da componenti di gruppi di opposizione (articolo 19 del Regolamento del Senato); ai fini della composizione delle commissioni permanenti (articolo 21 RS) il presidente deve rispettare non solo la proporzionale consistenza dei gruppi, ma anche il rapporto maggioranza-opposizione.

 

Da tutto ciò si dovrebbe evincere che, se anche la Corte dovesse ritrarsi dal riconoscere la legittimazione al conflitto del singolo senatore, ben potrebbe riconoscerla a oltre un decimo dei senatori e soprattutto a un intero gruppo parlamentare di opposizione, unica strada per consentire a sé stessa di verificare se le garanzie temporali minime incomprimibili, per l'esame della più importante delle leggi, siano davvero state conculcate nel dicembre 2018.

Di più su questi argomenti: