Pierre Moscovici, Jean Claude Juncker, Giuseppe Conte, Giovanni Tria (foto LaPresse)

La manovra? Responsabili sì, ma solo di tutti i guai combinati

Luciano Capone

L’accordo sul bilancio raggiunto con Bruxelles poteva essere stretto sulle stesse basi a settembre

Roma. La parola d’ordine adesso è “responsabilità”, ma nel significato sbagliato. Il governo non è stato “responsabile” (nel senso di giudizioso) perché alla fine ha raggiunto un’intesa con Bruxelles, ma è “responsabile” (nel senso di colpevole) per non averlo fatto prima e quindi di aver causato mesi di instabilità e danni inutili all’economia del paese. Si dice che alla fine hanno prevalso il buonsenso e la moderazione dei “tecnici”, l’approccio dialogante di Conte e Tria, rispetto alle incoscienti intemperanze di Salvini e Di Maio, consentendo all’Italia di scongiurare la procedura d’infrazione. Ma in quella condizione il paese non ci era finito per accidente, ci era arrivato per l’azione incoerente, spavalda, irresponsabile e superficiale del governo, che da settembre ha ignorato ogni avviso da parte delle istituzioni europee e dei mercati. Dire che il governo si è comportato in maniera equilibrata perché alla fine è riuscito a evitare un danno peggiore, è come ritenere affidabile un autista ubriaco che dopo aver preso la strada sbagliata, esser andato contromano, aver ammaccato la vettura, messo a rischio la vita dei passeggeri e quella di qualche pedone alla fine dice: “Però con quella sterzata ho evitato un frontale con un tir!”. Tutto è bene quel che finisce bene, si dice, ma questo viaggio terrificante non era affatto indispensabile.

 

Non è vero, come si continua a ripetere, che serviva puntare in alto (il 2,4 per cento) per ottenere il 2 per cento di deficit, perché l’accordo sul bilancio raggiunto con Bruxelles che “consente di evitare per ora di aprire una procedura per debito”, poteva essere stretto sulle stesse basi a settembre. Il governo, come hanno spiegato il presidente del Consiglio Conte in Parlamento e il commissario Valdis Dombrovskis, si è impegnato a tagliare il suo budget di 10,25 miliardi per il 2019. Questo vuol dire che l’aumento del deficit strutturale dello 0,8 per cento, previsto dal Documento programmatico di bilancio bocciato da Bruxelles, ora diventa zero: né l’aggiustamento dello 0,6 per cento previsto dalle regole, né il peggioramento desiderato dal governo. Ma questa politica fiscale neutrale era già il compromesso che era stato raggiunto a giugno-luglio tra la Commissione e il governo italiano (Conte e Tria), un accordo poi rinnegato quella sera di settembre quando su un balcone venne annunciata l’“abolizione della povertà”.

 

E quelle non sono state le uniche parole azzardate che il governo si è dovuto rimangiare. Per mesi, contro le stime del consensus nazionale e internazionale, ha insistito nel prevedere una crescita all’1,5 per cento. “La crescita sarà anche di più”, diceva Luigi Di Maio. E con lui tanti altri a ripetere che si trattava di una stima “prudenziale”. Il ministro degli Affari europei, Paolo Savona, l’economista di riferimento dell’esecutivo, affermava che sarebbe stata di gran lunga superiore: “Il 2 per cento nel 2019” e mezzo punto in più ogni anno, fino a raggiungere in un biennio la “soglia minima del 3 per cento”. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria diceva che “il tasso di crescita non si negozia”, perché le previsioni del Mef sono il frutto di una valutazione “squisitamente tecnica”. E invece nella negoziato con la Commissione c’è finita anche la crescita, tagliata di un terzo, dall’1,5 all’1 per cento. Poco male. Perché per Conte il peggioramento delle previsioni di crescita “si ripercuote per certi versi anche positivamente sui saldi di bilancio e sull’entità della correzione strutturale richiesta” dall’Europa. In pratica, grazie al fatto che l’economia andrà peggio del previsto, potremo fare un po’ più di disavanzo. Perché è evidente che l’obiettivo dei gialloverdi non è la crescita ma il deficit. E così sara: meno crescita, più deficit. E’ un governo responsabile, anche di questo.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali