Un paese spaccato a metà: la flat tax fa sognare il nord produttivo, il reddito di cittadinanza cattura il meridione in decrescita costante. Nella foto, Matteo Salvini a Napoli (LaPresse)

Auguri di prosperità all'Italia del reddito di cittadinanza

Annalisa Chirico

Il mezzogiorno è un paese diverso. Assistenzialismo, infrastrutture carenti, crimine, malagiustizia: come invertire una tendenza che il sussidio non cambierà. Girotondo tra economisti

Giovinazzo vs. Torino, si parte da qui. Non una ma due Italie. “Hanno vinto i Cinque stelle. Adesso dateci i moduli per fare domanda”. 7 marzo 2018, in un paesino del barese, a poche ore dalla chiusura delle urne, gli operatori di alcuni Caf devono fronteggiare la fatidica richiesta sollevata da cittadini bramosi di incassare il sussidio statale. La notizia viene amplificata dai media, pure un po’ esagerata, ma poi confermata nella sostanza dal sindaco Tommaso Depalma. Il voto ha consegnato la radiografia di un paese spaccato a metà: la flat tax fa sognare il nord produttivo, il reddito di cittadinanza cattura il meridione in decrescita costante. Operosità al nord, rassegnazione al sud. I moduli per il rdc non esistevano e non esistono tuttora, sebbene il ministro del Lavoro Luigi Di Maio abbia annunciato la stampa di sei milioni di tessere ad opera di un’entità misteriosa. Lo stesso ministro ha dichiarato che un “Navigator” accompagnerà, giorno e notte, il beneficiario della misura: lo assisterà fino a diventare il suo migliore amico. Il nome richiama un film della Disney, la fantascienza c’entra eccome. Paragonate la scena giovinazzese che sembra tratta da un film di Checco Zalone, trattasi invece di “fatti realmente accaduti”, con la manifestazione torinese pro-crescita che ha unito industriali, commercianti, cooperative e artigiani, circa il 65 per cento del pil nazionale, in un coro unanime: sì Tav. Non esiste una ma due Italie, distinte e distanti.

 

“Il sud è fuori dall’agenda politica dei governi di ogni colore, ed è ormai narcotizzato dai flussi di risorse” (Nicola Rossi)

“Il sud è fuori dall’agenda politica dei governi di ogni colore. Anzi, a voler essere precisi, ci entra e ci esce a fine anno quando l’esecutivo trova più comodo firmare un assegno e rinviare il problema”, dichiara al Foglio Nicola Rossi, già presidente dell’Istituto Bruno Leoni e professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma. In effetti, se i gialloverdi promettono un reddito di 780 euro per sei milioni di cittadini, i predecessori non brillano per le politiche di crescita da Roma in giù. “Il mancato sviluppo del mezzogiorno non può essere imputato all’attuale governo – prosegue Rossi – né si può dire che l’approccio assistenziale sia un’esclusiva pentaleghista. Tuttavia il messaggio è identico: poiché la soluzione del problema avrebbe un costo troppo elevato in termini elettorali, vi regaliamo un po’ di soldi, accontentatevi. Il sud è ormai narcotizzato dai flussi di risorse. Si preferisce deviare verso il mezzogiorno dei soldi anziché affrontare una delle grandi ipocrisie italiane: sbandieriamo ai quattro venti l’esistenza di un mercato del lavoro unico ma ciò non corrisponde al vero. A fronte di livelli di produttività differenziati, i livelli salariali vengono resi artificialmente omogenei dalla contrattazione collettiva nazionale. L’infrastruttura sindacale è stata costruita sulla necessità di negoziare a livello centralizzato. Se il contratto avesse un contenuto esclusivamente normativo e non economico, il sindacato sarebbe costretto a riconvertirsi”. Non si può dire che il mancato sviluppo sia legato soltanto alle dinamiche del mercato del lavoro. “Da vent’anni il sud è afflitto da decisioni sciagurate che passano fondamentalmente per le regioni. Le modalità di selezione della classe dirigente hanno un peso. Le elezioni regionali, provinciali e comunali si vincono promettendo massicce iniezioni di finanziamenti pubblici. Il risultato è che s’insediano classi dirigenti non all’altezza dei problemi da affrontare, ma dotate delle risorse per assicurarsi la riconferma. Quando si dice che il sud soffre di amministratori non di primissimo livello, si deve ammettere che costoro non precipitano dall’iperuranio…”. E’ la democrazia, bellezza. “Non s’intende disconoscere il valore del voto popolare ma sarebbe meglio prevedere flussi automatici e non discrezionali di risorse pubbliche. S’impedirebbe la formazione di clientele, e i finanziamenti sarebbero svincolati dai livelli di governo intermedio. Fosse per me, essi andrebbero concentrati su un unico obiettivo: il completamento delle infrastrutture materiali e immateriali”. Esiste un fattore culturale? A dispetto della mobilitazione sabauda pro Tav, il rischio di chiusura Ilva e i ritardi del Tap non hanno generato una reazione paragonabile tra i cittadini pugliesi. “Tocca fare i conti con la sindrome Nimby (not in my backyard, ndr), fenomeno tuttavia riferibile all’azione di esigue minoranze animate dalle ragioni più disparate, di carattere valoriale e non solo. Tali gruppuscoli riescono a esercitare un potere di blocco. Il mezzogiorno non è contrario alla banda larga o all’alta velocità. Sulle infrastrutture il governo dovrebbe mostrare una visione strategica. In Puglia esistono due porti, nessuno dei quali riesce a imporsi sull’altro. Atene invece ha deciso di assegnare al Pireo una preminenza strategica nell’area. Gli spagnoli hanno puntato su Malaga come unico polo turistico da valorizzare. Il nostro antico errore è aver deciso di deviare le risorse attraverso le regioni, così si continua ad avere una miriade di alberghetti senza essere in grado di assicurare un’accoglienza adeguata. Si è pensato che operazioni di carattere sovraregionale potessero essere gestite a livello regionale, con il risultato che per deliberare sulla strada ionica o sull’alta velocità da Napoli a Bari bisogna mettere d’accordo Michele Emiliano e Vincenzo de Luca”. I provvedimenti assistenziali annunciati in manovra si pongono in continuità con il passato: prevale la volontà di spendere senza decidere. Lei, professore, ha proposto una misura potenzialmente rivoluzionaria: una tassa piatta al 25 per cento su tutto il territorio nazionale. “La Lega l’ha fissata al 15 ma di fatto la manovra ne prefigura una versione assai depotenziata, limitandola a un segmento di partite Iva. Anche il sud trarrebbe vantaggio da un sistema di tassazione più semplice ed efficiente”. La Lega ha proposto l’esenzione totale dalle imposte per dieci anni, destinata a chi si trasferisce nel bel meridione. “Se qualcuno intende trasformare il sud in un enorme gerontocomio, invitando pure i pensionati stranieri, deve dirlo apertamente. Già oggi esso rappresenta l’area più anziana del paese con tendenze demografiche a dir poco preoccupanti. I giovani vanno via senza che s’intravvedano futuri rimpiazzi”.

 

“Serve una riforma della giustizia per ricucire il tessuto sociale. Il peso asfissiante della burocrazia va ridotto (Roberto Perotti)

Per Roberto Perotti, professore di Economia politica all’Università Bocconi di Milano, una premessa è d’obbligo: “Si parla dell’agenda economica del governo ma essa è ancora avvolta in una nebulosa. Le politiche specifiche per il sud non ci sono ma non è detto che sia un male. Né si conosce l’entità delle risorse destinate a pensioni e rdc”. In Italia, a eccezione del boom economico nel dopoguerra, il divario tra nord e sud è andato via via espandendosi. La Germania invece, all’indomani della riunificazione, è riuscita a ridurre la distanza tra est e ovest. “Berlino ha attuato una politica di enormi trasferimenti verso le aree orientali economicamente più depresse. Si tratta di ricette non riproponibili nel nostro paese. Le politiche degli ultimi vent’anni, con la Cassa per il mezzogiorno, gli investimenti finalizzati all’acquisto di aziende decotte, le agevolazioni per le assunzioni, non hanno ridotto il gap. La logica meramente redistributiva non ha funzionato, e il motivo è segnatamente contabile: se inietti risorse, il reddito dell’area destinataria aumenta ma non in modo permanente. A mio giudizio, occorre anzitutto ricucire il tessuto sociale, e per farlo bisogna partire dalla riforma della giustizia: in una zona dove s’impiegano vent’anni per realizzare un recupero crediti o dove la gente si sente insicura l’economia non cresce. E’ stato un grave errore lasciare ai populisti il tema della sicurezza: insieme alle promesse di rdc e pensioni anticipate, esso ne ha decretato la vittoria. Il peso asfissiante della burocrazia va ridotto. Si deve puntare sul capitale umano, e queste attività richiedono tempo. Piuttosto che inondare di soldi le regioni meridionali, occorre costruire istituzioni ed enti pubblici, quali scuole e ospedali, ben funzionanti”. Lei non è radicalmente contrario al rdc. “Non la giudico una misura di per sé sbagliata. E’ ingiusto un sistema dove, a distanza di diciotto o ventiquattro mesi dal licenziamento, il disoccupato viene lasciato a se stesso: in assenza di una rete familiare, come può andare avanti? Il problema è che l’applicazione del rdc, per come viene annunciata, si fonda su presupposti sbagliati. Anzitutto, le cifre che circolano sono troppo elevate: un insegnante di scuola media che guadagna 1.200 euro al mese potrebbe scoprire che il vicino di casa disoccupato, con moglie casalinga e due figli, incassa dallo stato fino a 1.500 euro. Si dice poi che, per scongiurare l’assistenzialismo puro, si potranno rifiutare fino a tre offerte di lavoro se incongrue. Si può prevedere un’ondata di ricorsi per cui la decisione finale sull’ipotetica congruità sarà demandata ai Tar. Quanto ai centri per l’impiego, il governo si mostra oltremodo ottimistico circa i tempi per metterli a sistema. Un centro per l’impiego richiede personale specializzato, s’impiegano diversi anni. Oggigiorno solo il 27 per cento degli operatori dei cpi è composto da laureati, in molti casi manca la connessione a Internet. Un database nazionale che faccia incontrare offerta e domanda di lavoro è una bella idea ma non esiste neppure in paesi piccoli e avanzati come la Danimarca”.

 

“L’entità del sussidio è troppo elevata, le condizioni di accesso troppo ampie. La conseguenza sarà più lavoro nero” (Pietro Reichlin)

“Il rdc è la misura di cui il sud Italia ha minor bisogno”, risponde tranchant Pietro Reichlin, che insegna Economia alla Luiss Guido Carli di Roma. “Si tratta di una misura assistenziale abbastanza generosa dal punto di vista qualitativo e quantitativo. L’entità del sussidio è troppo elevata, le condizioni di accesso troppo ampie. La conseguenza sarà più lavoro nero e meno incentivi all’occupazione”. Quello del meridionale lassista e un po’ parassita è uno stereotipo? “L’affermazione è forte, io mi limiterei a osservare le esperienze estere. I tedeschi, per esempio, hanno implementato politiche in grado di favorire la convergenza tra le due Germanie, la misura principale che più ha contribuito a far uscire la zona orientale dalla trappola del sottosviluppo è stata la decentralizzazione contrattuale. In Italia invece resiste il tabù del contratto collettivo che determina un notevole appiattimento dei salari tra aree geografiche con livelli di produttività marcatamente diversi. Tanto più se si considerano i differenziali nel costo della vita. L’idea della contrattazione aziendale fatica ad affermarsi per diverse ragioni: la struttura produttiva italiana, caratterizzata da un proverbiale nanismo, fa sì che le singole imprese difficilmente possano farsi carico di una contrattazione diretta, perciò recepiscono i minimi retributivi del contratto nazionale e si adeguano ad essi. La giurisprudenza ha chiarito che il contratto collettivo nazionale è inderogabile. Vi è poi un problema di cultura industriale: il sindacato è restio a un simile cambiamento. Forse è il retaggio delle politiche dei redditi risalenti ai primi anni Novanta quando si pensò di uscire così dall’eccesso di conflittualità legata al superamento della scala mobile”. A voler spezzare una lancia in favore del governo, va detto che il miraggio dello sviluppo al sud non è un fatto recente, le manovre in deficit sono una costante dei nostri governi. “E’ improprio stabilire un paragone con i disavanzi del passato senza tener conto del momento congiunturale: una manovra in disavanzo è consentita in fase di recessione mentre è incompatibile con una fase di crescita. L’idea sottostante è che bisogna risparmiare quando le cose vanno bene. I governi di centrosinistra, negli ultimi anni, hanno utilizzato la flessibilità concessa dalle regole europee entro i margini giustificati da eventi eccezionali come la caduta del pil. Adesso invece il governo disegna una manovra super espansiva in una fase segnata da quattordici trimestri consecutivi di crescita positiva”. Dalle parti dell’esecutivo, si ripete che il rdc servirà a “mettere soldi in circolo”. “Esistono modi migliori. Occorre puntare, per esempio, su investimenti utili a migliorare la dotazione infrastrutturale. Al sud la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’ determina un impoverimento del capitale umano. Il governo avrebbe dovuto destinare maggiori risorse all’istruzione prevedendo borse di studio e programmi contro l’abbandono scolastico”. Non basta la scuola per colmare il gap tra un nord con una disoccupazione intorno al sei per cento e un meridione afflitto da un tasso di disoccupati tre volte superiore. “Solo negli anni del boom economico il divario si è assottigliato, da allora in poi esso è rimasto sostanzialmente invariato. I salari nel settore pubblico restano mediamente più elevati che nel privato, il che determina un eccesso di dipendenti pubblici nel mezzogiorno. Per le imprese private assumere a Palermo è più complicato che a Bergamo perché i lavoratori meridionali di media qualifica hanno, come alternativa, un’occupazione pubblica meglio remunerata; da qui la tendenza, anch’essa negativa, a preferire corsi di laurea in materie giuridiche e umanistiche, le più richieste nella pubblica amministrazione”.

 

“Mancano le ricette per la crescita. I porti di Napoli e Gioia Tauro potrebbero attirare ingenti investimenti” (Claudio De Vincenti)

Per Claudio De Vincenti, già ministro per la Coesione territoriale e il mezzogiorno nel governo Gentiloni e sottosegretario di Palazzo Chigi con Matteo Renzi premier, “il sud sembra uscito dall’agenda del governo perché mancano le ricette per la crescita. Non è stato rifinanziato il credito d’imposta per gli investimenti nel mezzogiorno che ha offerto un’ottima prova di sé: in un anno e mezzo di operatività esso ha innescato sei miliardi d’investimenti privati; sarebbe stato necessario reinserirlo in legge di bilancio in modo da aumentarne la dotazione, invece il rischio è che le risorse stanziate per questa agevolazione fiscale si esauriscano nel giro di pochi mesi. In secondo luogo, il pacchetto previsto da Industria 4.0, con iper e super ammortamenti, è stato depotenziato: fino ad oggi, un’impresa che sceglieva di realizzare un investimento innovativo al sud beneficiava di entrambi gli incentivi. Ci sono poi gli investimenti pubblici regolati dai patti per il sud, non sappiamo se stiano proseguendo. L’unica cosa sicura è il rdc sul quale il mio giudizio non è pregiudizialmente negativo, dipenderà da come esso sarà applicato. Se consisterà in una estensione del reddito d’inclusione potrà dare frutti positivi: il rei, introdotto dal governo Gentiloni, non viene erogato fin quando non si delinea un percorso di reinserimento lavorativo e sociale, costruito e sottoscritto dai servizi sociali del comune e dal beneficiario. Non è chiaro invece se il rdc sarà erogato a prescindere da un protocollo: in tal caso, in assenza di un impegno forte, il rischio è che incentivi non il lavoro ma l’evasione. Sarebbe dunque una misura puramente assistenziale, e il mezzogiorno ha bisogno di tutto fuorché di assistenzialismo”. Torniamo ai patti per il sud: nel 2016 li volle l’allora premier Renzi in accordo con Regioni e Città metropolitane del sud per spingere lo sviluppo. A che punto è l’effettiva applicazione? “Quei protocolli indicano, nel dettaglio, risorse e impegni in capo ai vari livelli di governo, l’obiettivo è sbloccare le opere. Ciò richiede un monitoraggio continuo attraverso un’azione amministrativa permanente, se no le cose si fermano. Il governo Gentiloni ha varato le zone economiche speciali in Campania e Calabria, due regioni incentrate sui porti di Napoli e Gioia Tauro che potrebbero attirare ingenti investimenti nei settori della logistica e delle industrie collegate, e trasformare l’intero mezzogiorno nel crocevia dei traffici internazionali del Mediterraneo, notevolmente aumentati in seguito al raddoppio del Canale di Suez. Anche in questo caso, per avanzare negli interventi, occorre l’azione amministrativa: bisogna incontrare i soggetti coinvolti e spingerli ad andare avanti. Si pensa che sfornare nuove leggi sia la panacea per tutto, invece spesso quello che serve è la buona amministrazione”.

  


“Hanno vinto i Cinque stelle. Adesso dateci i moduli per fare domanda” (il reddito di cittadinanza in un paesino del barese, dopo le elezioni). Nella foto, il vicepremier Luigi Di Maio a Napoli (LaPresse)


 

S’intende di sud, pur essendo un marchigiano trapiantato a Napoli, Adriano Giannola, presidente della Svimez, l’associazione con lo scopo di promuovere lo studio delle condizioni economiche del mezzogiorno. E proprio da una ricerca di questo ente specializzato è emerso che per “coprire” il rdc nelle regioni meridionali servirebbero oltre dieci miliardi di euro considerando la misura operativa da aprile del prossimo anno; la regione che ne beneficerebbe maggiormente sarebbe la Campania (quasi 3,1 mld di euro), seguita dalla Sicilia (2,7 mld), dalla Puglia (1,6 mld) e dalla Calabria (1,1 mld). “Il meridionalismo significa guardare non al sud ma ai guasti provocati all’intero paese da un’economia sempre più duale”, dichiara Giannola. “Ci accusavano di alimentare una visione pessimistica quando denunciavamo, inascoltati, i rischi del localismo più sfrenato e dei distretti industriali. Sin dalla crisi del petrolio negli anni Ottanta, si è teorizzato che il sud avesse imboccato un percorso di sviluppo autopropulsivo: bastava sostenere la domanda perché nuove imprese nascessero. Un’idea non del tutto sbagliata ma farne una politica di sviluppo ha condannato il sud all’assistenzialismo, vale a dire a un sistema che ormai non regge più. La colpa è nostra, non dell’euro. Da vent’anni serve una politica di rinnovamento e innovazione. Il sud è investito da uno tsunami demografico: ogni anno decine di migliaia di giovani emigrano verso il nord, nel 2050 il sud sarà abitato esclusivamente da pensionati. Se ciò avverrà, il meridione non farà un favore al nord ma lo trascinerà con sé verso il baratro”. Quali sono le ricette per uscire dalla trappola della decrescita? “Il sud deve diventare il punto di partenza di un programma per lo sviluppo. Il mondo contemporaneo è dominato dalla logistica, e la nostra penisola, situata al centro del Mediterraneo, può rivestire un ruolo strategico. Il sud potrebbe essere il fulcro di un sistema per la diffusione delle energie rinnovabili, a partire da sole e vento”. Progetti avveniristici per le regioni meridionali incapaci di impiegare la totalità dei fondi messi a disposizione dall’Unione europea. “E’ colpa delle amministrazioni, c’è poco da fare. Ma neanche il nord è perfetto, oggigiorno somiglia a una locomotiva spuntata, efficiente ma ormai piva di capacità di trascinamento. Negli ultimi sette anni il settentrione ha perso otto punti di produttività. Sarebbe questa la nostra Germania? Assolombarda lancia un appello: date ascolto al vento del nord; a me sembra un atteggiamento paternalistico suicida. La Svimez non si occupa semplicemente di sud ma dell’Italia intera”. Non si può negare che il meridione sia diventato il simbolo di un gigantesco spreco di opportunità. “Circa il quaranta percento di giovani non lavora, si registrano tassi di criminalità impressionanti, le persone delinquono con senso di autolegittimazione. Oggi l’unico vero sovranismo è quello delle regioni che si sono fatte stato. Intanto manca l’alta velocità da Napoli in giù, i porti in grado di trasformare il sud in un hub dell’economia globale sono carenti. Napoli e Palermo potrebbero trasformarsi nelle smart cities del Mediterraneo, invece l’edilizia campana è letteralmente crollata…”. 

 

“Il sud è in declino”, scandisce Emanuele Felice, docente di Storia economica all’Università G. D’Annunzio di Chieti e Pescara. Felice, che è pure editorialista di La Repubblica, ha pubblicato un libro dal titolo emblematico: “Perché il Sud è rimasto indietro” (il Mulino, 2013). “Il 4 marzo i cittadini meridionali hanno espresso un voto di disperazione. Il sud ha votato secondo una logica non clientelare ma assistenziale. Le clientele esistono nel Pd, in quel che rimane del centrodestra, si riorganizzano nella Lega, ma restano abbastanza estranee al M5S. Con la politica del rdc, fallisce la sfida dello sviluppo. Negli scorsi anni il Pd ha governato non solo a livello nazionale ma anche in tutte le regioni del mezzogiorno. La possibilità di una vera politica riformista c’era ma non è stata colta. Il Pd era investito di un compito storico, quello di invertire il destino del mezzogiorno, invece si è limitato a interventi tampone come gli sconti fiscali”. Al sud i cittadini, e in particolar modo le donne, hanno votato i pentastellati. “E’ il voto di disperazione di chi vorrebbe lavorare e non trova lavoro. Nel M5s poi c’è un discorso antiscientifico che si traduce in una riscrittura della storia in chiave neoborbonica: è tutta colpa dei settentrionali. Non c’è dunque soltanto un motivo di convenienza economica; esiste una narrazione sudista, di carattere identitario, che trova uno sbocco politico nei Cinque stelle”. Nei suoi scritti si evidenzia il ruolo delle “cattive istituzioni” nel mancato sviluppo. “E’ opinione unanime che le Regioni, istituite nel 1970, non abbiano funzionato. Esse si dimostrano platealmente incapaci di impiegare in modo produttivo i fondi europei. I governi Monti e Letta avevano avviato l’Agenzia per la coesione territoriale con l’obiettivo di una programmazione strategica per l’uso di queste risorse; poi Renzi e Gentiloni hanno depotenziato l’ente riducendolo a un organo di mero controllo contabile”.

 

“Se si guarda alla storia del secondo dopoguerra – dichiara al Foglio Marcello Messori, professore di Economia alla Luiss Guido Carli – emerge che il mezzogiorno ha ridotto la forbice rispetto al centro-nord quando ha potuto fruire d’investimenti, dapprima esclusivamente pubblici, poi anche privati, toccando il divario minimo nel 1976. Da lì in poi si è privilegiato un approccio fondato su trasferimenti e spese correnti, e il divario è andato allargandosi”. Una politica d’investimenti pubblici oggigiorno è improponibile. “Il passato non torna ma il futuro va costruito partendo dalla consapevolezza che il ritardo del sud si è accentuato dal punto di vista non solo quantitativo ma anche qualitativo. Il mezzogiorno ha fatto sempre più fatica a integrarsi nei mercati internazionali. Le ragioni dell’accresciuta marginalità derivano dalla carenza di infrastrutture materiali e immateriali; mancano le risorse umane ad alta formazione, ingredienti necessari per competere in un’economia prima dell’informazione e adesso di intelligenza artificiale. La transizione dagli investimenti ai trasferimenti di reddito ha reso il meridione più vulnerabile rispetto al resto d’Italia”. Dunque, la parola chiave è investimenti. “Essi devono essere efficaci ed efficienti, altrimenti non aiutano la crescita né colmano i divari di competitività; subentra allora una seconda variabile che gli economisti non sempre sanno maneggiare, e mi riferisco al capitale sociale, al contesto ambientale. Ad esempio, nel mezzogiorno un massiccio progetto d’investimenti deve essere disegnato in modo da evitare le infiltrazioni criminali che distorcono la leale concorrenza tra le imprese”. Il governo intanto punta sul rdc. “Io non sono tra i più critici, il problema è la concreta applicazione. In primo luogo, esso viene realizzato in modo affrettato e senza la selezione preventiva dei potenziali beneficiari. Le agenzie del lavoro dovrebbero perseguire obiettivi circoscritti ben definiti. Nel progetto non è ancora chiara la connessione tra l’erogazione del sussidio e la formazione per il reinserimento lavorativo. Il livello del sussidio poi non appare proporzionato al reddito medio e al funzionamento del mercato del lavoro nazionale: fissarlo a 780 euro mensili significa aumentare l’incidenza dell’occupazione in nero”. I fondi europei sono un altro tasto dolente quando si parla di meridione. “Urge una regia centralizzata per la gestione e l’impiego di queste ingenti risorse, l’incapacità delle regioni di utilizzarle in modo quantitativamente e qualitativamente appropriato è conclamata. Per paradosso, lamentiamo la scarsità di denari pubblici e poi non siamo in grado di impiegare quelli disponibili. Occorre puntare sul connubio tra pubblico e privato valorizzando le realtà tecnologicamente più avanzate che, sebbene rappresentino casi isolati, esistono”.

 

Servirebbe “un vigoroso taglio del cuneo fiscale” (Antonio Ferraioli). “Lo spirito imprenditoriale non manca” (Gianfranco Viesti)

Parlando d’impresa vale la pena ascoltare la voce di un imprenditore del sud: si chiama Antonio Ferraioli e presiede la Doria, società quotata in Borsa, con epicentro ad Angri, nel salernitano, specializzata nella produzione di conserve alimentari vegetali. Fondata nel 1954 dal padre Diodato, l’azienda impiega 1.800 persone con un fatturato di 690 milioni di euro nel 2017. “Il rdc è una misura assistenziale che non risolverà i problemi del meridione. L’unico rimedio alla decrescita è incentivare le imprese a investire; Industria 4.0 si è rivelata molto utile, numerose aziende ne hanno tratto vantaggio per modernizzare il parco macchine. Le risorse assorbite dal rdc potevano essere destinate più proficuamente a un vigoroso taglio del cuneo fiscale. In Italia il differenziale tra il costo sostenuto dall’azienda e il netto intascato dal lavoratore è eccessivo. C’è poi il tema delle infrastrutture bloccate: la nostra azienda è fortunata perché si trova tra i porti di Napoli e Salerno, ed è facilmente collegata alla rete autostradale. Ma la situazione generale è critica: l’aeroporto di Napoli è migliorato in seguito alla privatizzazione. Il trasporto ferroviario impiega quatto ore per collegare i capoluoghi campano e pugliese, incluso un cambio obbligato. Per chi lavora il tempo è una risorsa preziosa”. Non va trascurata la condizione di cinque milioni di cittadini in condizioni di povertà assoluta. “Non dobbiamo lasciare indietro chi non ha, io sarei stato favorevole all’estensione del reddito d’inclusione, in sinergia con i comuni, vale a dire con gli enti che meglio conoscono la singola realtà sociale. Il rdc, per come viene annunciato, rischia di incentivare il lavoro nero. Servono invece politiche attive del lavoro, insieme a un dialogo più stretto con il mondo delle imprese: in Germania gli istituti tecnici svolgono un ruolo importante per indirizzare la formazione del capitale umano secondo le esigenze effettive del tessuto produttivo. Il distacco tra ciò che serve alle imprese e ciò che s’insegna a scuola riguarda l’intero paese, nel sud è solo più accentuato”.

 

Gli investimenti “devono essere efficaci ed efficienti” (Marcello Messori). “Necessario attrarli dal nord e dall’estero” (Pietro Busetta)

“Il sud ha ventuno milioni di abitanti e poco più di sei milioni di occupati, compresi i sommersi”, dichiara l’economista Pietro Massimo Busetta, autore de “Il coccodrillo si è affogato” (Rubbettino, 2018). “Perché diventi un’area a sviluppo compiuto e senza emigrazione, gli occupati dovrebbero salire a nove milioni, quindi siamo sotto di tre. Questi posti di lavoro difficilmente saranno creati dall’imprenditoria locale che è al palo da quindici anni. Malgrado l’iniezione di fondi strutturali, il sistema privato meridionale ha fatto quel che poteva. Adesso è necessario attrarre investimenti dal nord e dall’estero, com’è accaduto in Irlanda, Polonia, Repubblica ceca, Ungheria…A tale scopo vanno soddisfatte quattro condizioni: una buona infrastrutturazione, la repressione della criminalità organizzata, l’azzeramento del cuneo fiscale e la fiscalità di vantaggio”. Nel suo libro lei parla di un fallimento annunciato e di una possibile rinascita. “Il sud può e deve ripartire. Oggigiorno l’alta velocità si ferma a Napoli, il sistema di viabilità interna, porti e aeroporti è da secondo mondo. Le imprese che investono da Roma in giù sostengono il peso di un’imposizione fiscale persino superiore”. Con il voto del 4 marzo il sud ha chiesto sostanzialmente un sussidio. “Il messaggio è chiaro: o mi sviluppi o mi mantieni. Il rdc risponde alla logica del mantenimento. Il sud è già afflitto da un tasso di lavoro nero al trenta per cento, e nel progetto del governo si accenna a tre offerte di lavoro entro i cinquanta chilometri dal luogo di residenza: questa disponibilità di impieghi non esiste, è pura fantasia. A me sembra un modo per schivare il problema. Il rischio, inoltre, è che il rdc riduca la propensione a trasferirsi al nord. Se lo stato mi garantisce la possibilità di sopravvivere nel mio territorio, sarò meno incentivato a spostarmi altrove, e questo fenomeno, nel lungo periodo, mette in crisi il sistema produttivo nazionale”.

 

Per Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata all’Università di Bari, “il sud è fuori dall’agenda dei governi da lungo tempo. Per tornare a crescere il paese ha bisogno di un modello di sviluppo incentrato su investimenti pubblici e privati, in special modo nelle connessioni di trasporti e comunicazioni interurbane, e nei settori dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione. Il modello italiano, tradizionalmente basato su bassi prezzi e basso costo del lavoro, non funziona più nel XXI secolo: la concorrenza di asiatici e cugini orientali ci mette fuori gioco. Occorre puntare su capitale umano e innovazione. Il nostro paese destina alla ricerca poco più di un punto percentuale del pil, la Cina investe il triplo. Siamo il paese dell’Ue con la percentuale più bassa di giovani laureati”. L’imprenditoria del sud è in buona salute? “A mio avviso, il mezzogiorno soffre di una domanda interna particolarmente debole ma lo spirito imprenditoriale non manca se consideriamo, per esempio, il numero di aziende che nascono su base annua. Il problema è tenerle in vita. Il sud è lo specchio del paese, ne condivide punti di forza e debolezze ma in modo più accentuato. Il rdc non è una misura di per sé cattiva ma non va bene se diventa l’unica misura per il sud. Serve una politica industriale seria, i provvedimenti tampone contro il disagio sociale non bastano”. La questione fiscale non è secondaria. “La tassazione eccessiva è una zavorra per l’intera economia nazionale, al sud la tassazione media delle famiglie è persino più alta a causa delle imposte locali più elevate, in particolare Irap e addizionali regionali e comunali, che si sommano alle aliquote nazionali uguali su tutto il territorio italiano. Si è calcolato che una famiglia napoletana paga circa il due percento in più di tasse rispetto all’omologo residente a Bolzano. L’Italia è l’unico paese europeo che ha realizzato l’alta velocità in una sola direzione, da Napoli in su. La spesa per il trasporto pubblico locale è diminuita a Napoli e a Catania, il costo di circolazione è calato, il che vuol dire riduzione di mezzi e autisti”. In una parola, declino.