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Meriti, bisogni, no aperture al M5s. Al Pd serve un congresso così. (E Minniti)

Umberto Ranieri

Per non ridursi a un rituale inutile, bisogna chiedersi quali siano le ragioni della distanza così grande che si è creata tra il partito e il sentire del paese

Per non ridursi a un rituale inutile, il congresso del Pd dovrebbe chiedersi quali siano le ragioni della distanza così grande che si è creata tra il Pd e il sentire del paese. Nel Mezzogiorno la distanza suscita sgomento: il Pd viene dato sotto il 10 per cento, mentre populisti e sovranisti veleggiano oltre il 60 per cento! Non credo che il meccanismo unico populista sia diventato tanto “pervasivo e penetrante” da non consentire una opposizione. C’è da chiedersi con quali forze e idee nuove si pensa di affrontare la sfida, di condurre una opposizione civile, di far maturare una alternativa politica al “polo unico populista”. Se la discussione congressuale non affronta un simile problema meglio, come si dice a Napoli, chiudere baracca e burattini. Si parta dalla consapevolezza che l’abbandono del Pd da parte di una porzione consistente del suo elettorato impone un cambio di passo nella proposta politica, nelle idee, nel modo di essere e di funzionare del partito. Ci si liberi prima di tutto dal complesso degli anni di Renzi su cui si oscilla tra il silenzio, l’abiura o la esaltazione.

 

Si pervenga ad una valutazione più persuasiva ed equilibrata di quella complessa esperienza. Nei giorni che precedettero il voto referendario, in un documento dell’Ocse, l’Italia venne considerato il paese dell’Eurozona più impegnato nelle riforme. In realtà le riforme producono benefici nel medio periodo, nel breve vanno a colpire gruppi di interesse specifici e quindi hanno degli effetti negativi immediati in termini di consenso. Il governo Renzi si scontrò quasi subito con la resistenza di chi veniva toccato dalle riforme strutturali. Né aiutarono a superare le difficoltà i vari bonus elargiti o l’abolizione per tutti della Tasi sulla prima casa. Alla rottura di equilibri prodotti dalle riforme non corrispose la costruzione di uno schieramento sociale che delle riforme valorizzasse i benefici e ne sostenesse l’attuazione. L’errore capitale di Renzi tuttavia fu trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su di sé quando la sua popolarità era al minimo. Renzi non condusse con intelligenza quella battaglia. Fece ricorso a luoghi comuni demagogici che portarono acqua a chi la contrastava. Detto ciò, un giudizio su quella esperienza non può prescindere dalla considerazione delle ristrettezze e delle chiusure dell’Italia corporativa, di un sinistrismo pronto a cavalcare ogni ostilità ai cambiamenti. Non fu concesso alle riforme il tempo necessario per valutare e correggere in corso d’opera ciò che si fosse rivelato insufficiente o inappropriato.

 

E veniamo ai populisti. La sinistra non è riuscita a costruire un “blocco sociale” capace di tenere insieme le ragioni dei diritti e quelli dello sviluppo economico nell’epoca in cui prevale il gioco duro della globalizzazione. La conseguenza è che una parte del “suo popolo” ha finito per scegliere altre vie. Fattore decisivo della vittoria degli estremisti in Italia è stata inoltre la vertiginosa caduta della fiducia verso la politica. Ciò ha favorito il successo di un movimento dai tratti demagogici e illiberali, teso a fare il pieno di voti sulla base di risentimenti e di rancori. In questa temperie è maturata la sconfitta del Pd.

 

Come risalire la china? L’avvio del dibattito congressuale non lascia ben sperare. La discussione nel Pd sembra ruotare intorno ad una sola questione: cosa fare con il M5s! Parliamoci chiaro. Dai nodi economici e politici che si addensano in Europa al giudizio sulla globalizzazione, dal reddito di base alla riorganizzazione del welfare, dalla giustizia ai processi formativi, giungono dal grillismo messaggi distruttivi. Avviare trattative con costoro? Figure “senza ombra di memoria e di intelletto”? Una farsa. Elettori di sinistra che il 4 marzo hanno scelto il M5s vanno riconquistati a una politica di cambiamento e riforme non incoraggiati nella loro scelta assumendo il M5s come interlocutore di una possibile intesa.

 

L’altra questione riguarda il partito. Il congresso dovrà decidere l’avvio della rifondazione del Pd per farne una forza in grado di fornire per cultura, collocazione e programmi un punto di riferimento a forze importanti della società italiana che si interrogano alla ricerca di una strada che eviti che l’Italia resti a lungo nelle mani di Salvini e Di Maio; una forza che sappia guardare al di là della propria storia e insediarsi in uno spazio politico più largo; un partito aperto, di individui e non di truppe cammellate, di adesioni consapevoli, in cui contino gli iscritti liberi da condizionamenti di gruppi di potere e gli elettori.

 

La sua identità il Pd dovrà manifestarla attraverso due tonalità: quella liberale, del riconoscimento dei meriti e della competizione, quella socialista dei diritti sociali e della solidarietà. Occorrerà inoltre consapevolezza della grande mutazione che investe vertiginosamente il mondo e della necessità di una svolta nel modo di essere dell’Unione europea. La nuova linea di faglia nell’Europa di questo secolo passa fra chi cerca soluzioni a problemi globali dentro la propria nazione alzando ponti levatoi e chi continua a pensare che soluzioni comuni e libertà di commercio continueranno a garantire prosperità e benessere. Il Pd non può che collocarsi in questo secondo campo pur consapevole della durezza della globalizzazione: un gigantesco avanzamento per tutta l’umanità carico di domande aperte.

 

Intorno a tali questioni dovrà svolgersi il congresso del Pd. Su un punto non potranno esserci equivoci: l’opinione pubblica di sinistra e democratica guarderebbe con diffidenza se si riducessero le primarie ad una investitura dall’alto del segretario. Possibile che dopo una pesante sconfitta elettorale gravida di conseguenze per il paese, dopo anni di governi guidati dal Pd, non solo stenta a svilupparsi un confronto politico ma tutti dovrebbero ritrovarsi intorno a una candidatura unica a segretario? Se così fosse ci sarebbe ben poco da sperare per il futuro.

 

Ecco perché trovo del tutto infondata (e venata di ipocrisia) l’idea che, avendo avuto responsabilità nel precedente governo, Marco Minniti non dovrebbe candidarsi alla segreteria del Pd. Lo ha sostenuto Franceschini recentemente. La retorica del passo indietro. Non so cosa deciderà Minniti. Non saprei nemmeno dire quale sia, per dirla nobilmente, la sua “sensibilità” nella dialettica interna al partito. Mi pare che abbia mantenuto una propria autonomia di pensiero e abbia lavorato sodo, lontano da “odi gretti e ripicche” il che, di questi tempi, credo sia un titolo di merito. Di una cosa sono persuaso: la sua sarebbe la candidatura di un uomo politico che ha fronteggiato, dal governo del paese, e con efficacia riconosciuta dagli italiani, una drammatica sfida, l’immigrazione. E lo ha fatto navigando alla ricerca di una rotta “tra i dubbi propri e le certezze altrui senza stancarsi di cercare un pensiero e una via praticabile, lontano dagli schematismi ideologici”. Per questo è apprezzato dagli italiani. La sua candidatura susciterebbe interesse e rispetto e, al pari di quella di Zingaretti, darebbe credibilità e forza al Pd. Come si fa a non comprenderlo?

 

Credo che il Pd, nonostante le angustie in cui è stretto, sia ancora capace di esprimere vitalità, volontà di stare in campo, di non cedere, di aprirsi una strada. C’è da augurarsi si vada a un congresso vero, che squarci il velo di un silenzio insostenibile e sia l’occasione per un confronto senza ambiguità sul futuro del paese e sul carattere della lotta al populismo. Questa è la via obbligata per suscitare interesse nella società italiana e riavvicinare forze all’impegno e alla passione politica. Questo attendono, inquieti ma con la testa lucida e gli occhi aperti, gli iscritti e gli elettori. Essi non temono la battaglia politica leale. Temono il conformismo burocratico. Sarebbe questo a decretare la fine.