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La Torino che lavora e che produce si riscopre Sì Tav. Ben Svegliati

Valerio Valentini

Adesso gli industriali torinesi danno battaglia alla Appendino e alla cultura del no del M5s

Roma. Quel pomeriggio, tra i tavoli del bar Turet di piazza Solferino, era tutto uno scambiarsi i complimenti e pacche sulle spalle, attestati di stima che andavano ben oltre l’ossequio d’ordinanza. Luigi Di Maio, quel 13 febbraio, era raggiante. Era il suo secondo giorno di campagna elettorale a Torino: città che, tra le grane giudiziarie della sindaca e la guerriglia intestina ai grillini sabaudi sulle Olimpiadi, ormai da tempo gli costava patemi. E dunque a confortare non era stato tanto il bagno di folla, scontato, tra i banconi del mercato di Santa Rita. Era stato invece vedere quelle aperture di credito, quell’entusiasmo da parte di ambienti un tempo ostili alla cultura del vaffa e poi evidentemente sedotti dalla bocconiana, “quella brava”, e per proprietà transitiva del suo leader. “Sono rimasto spiazzato: Di Maio si è dimostrato attento e preparato”, esultava, al termine dell’aperitivo, Dino De Santis, presidente della locale Confartigianato. “Ho apprezzato l’accento che ha posto sulla formazione e le tecnologie digitali”, argomentava, deposto il flûte di spumante, Nicola Scarlatelli, presidente di Cna Torino. E la Tav? E l’euro, e la crescita? Tutti a stringersi nelle spalle. Addirittura Massimo Giuntoli, il presidente degli architetti cittadini che pure, uscendo dal bar, sibilò parole per nulla lusinghiere all’indirizzo del candidato premier grillino, sfoggiò comunque un credibilissimo compiacimento mentre donava il suo biglietto da visita all’illustre interlocutore. E d’altronde perfino la visita mattutina nella sede dell’Unione industriale era andata meglio del previsto. E altri, tra imprenditori piccoli e medi, e qualcuno di grande, si premurarono di esternare il loro afflato di ammirazione verso la nuova classe dirigente a cinque stelle. Eccola, la Torino che lavora e che produce, al cospetto di Di Maio. Eccola, la Torino che ci aveva creduto e che ora, d’improvviso, si ricrede. E allora s’indigna, annuncia la lotta, invoca una nuova marcia dei quarantam…, anzi no, dei centomila.

  

   

  

E insomma è lo stesso De Santis, lo stesso Gallina, è la stessa Cna adesso a protestare. E insieme a loro quei pochi, del sistema Torino, che assai di rado avevano abboccato alla retorica del grillismo moderato, di governo: da Giancarlo Banchieri di Confesercenti a Maria Luisa Coppa di Ascom. Prima il presidio a Palazzo civico, nel giorno in cui la maggioranza dei Cinque stelle in Sala Rossa ribadiva la sua opposizione alla Tav, mentre la sindaca – cuor di leone – s’inventava un viaggio istituzionale a Dubai per disertare il Consiglio comunale; poi le reazioni indignate di fronte alle scombiccherate dichiarazioni di Di Maio, arrivato a Torino per dire, tra l’altro, che i fondi destinati alla Torino-Lione sarebbe meglio dirottarli sulla linea 2 della metro (che pure molti dei grillini sabaudi contestano), nemmeno stesse lì a dover decidere cosa o chi buttare dalla torre, come se quei miliardi destinati all’alta velocità non fossero vincolati a trattati internazionali, alle regole europee, ma fossero bruscolini da gettare in un piatto oppure nell’altro, a seconda del capriccio di giornata, dell’umore della base. E allora ecco l’idea della marcia dei centomila lanciata dagli industriali, “ché Torino non può finire su un binario morto”. E forse perfino chi, in città, per anni ha tifato per il “chiappendino”; spingeva il presidente della regione Sergio Chiamparino da un lato, e il capogruppo del Pd in Comune Stefano Lo Russo dall’altro, ad “aprire alla sindaca”, oggi in silenzio fa mea culpa. “La misura è colma”, urla invece Vincenzo Ilotte, il presidente della Camera di commercio che più di chiunque altro s’era speso per la candidatura ai Giochi invernali del 2026, convinto com’era di poter convincere la sindaca. Uno sconvolgimento generale che però i grillini torinesi hanno buon gioco a stigmatizzare. Si stupiscono dello stupore, ché d’altronde “noi semplicemente tentiamo dove possiamo di tener fede al nostro programma politico”, dice la capogruppo in Sala Rossa, Valentina Sganga. Ed è difficile darle torto. Così come difficile era pensare che ci sarebbe stato, da parte del M5s in città e non solo, un ravvedimento che, per chi dovrebbe maturarlo, sarebbe in verità un’abiura. I grillini, a Torino come altrove, sono quello che sono. E’ bene saperlo. Ed è bene rendersene conto, in modo definitivo, ancorché con un certo ritardo. 

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