La protesta "Sì Tav" dell'opposizione durante il Consiglio comunale di Torino (foto LaPresse)

L'intesa M5s-Lega sulla Torino-Lione vacilla

Valerio Valentini

Sulla Tav Salvini furioso. Lo stallo costerà 75 milioni al mese

Roma. Il problema non è tanto la recita, per sbracata che possa apparire. “E’ il gioco delle parti, e ci sta”, dicono i leghisti di governo se gli si chiede un commento sull’ultimo atto della crociata grillina contro la Tav in quel di Torino. Il problema, semmai, è il rischio che poi la messa in commedia del dibattito che si vorrebbe serio intorno all’alta velocità finisca col far saltare in aria un’intesa di massima che Lega e M5s avevano raggiunto, anche col governo francese: tirarla in lungo, cioè, ancora un po’, e poi dare il via libera a una Tav a impatto ridotto.

 

L’ordine del giorno portato in Sala Rossa dal gruppo del M5s di per sé è poca cosa: ne sono consapevoli sia i grillini sia i leghisti. Ma, per come è maturato, segna l’innalzarsi della tensione dentro e fuori il governo a livelli finora insoliti. Luigi Di Maio aveva chiesto tempo, a Matteo Salvini: fare ammuina fino alle europee, così da potere elaborare una exit strategy che non lo mettesse in eccessiva difficoltà con le frange più ortodosse del suo gruppo parlamentare e del suo elettorato. Il leader della Lega quel tempo aveva accordato di darglielo, convinto che alla fine tutto si sarebbe risolto. Ma l’accordo, di per sé complicato, negli ultimi giorni si sta rivelando estremamente inconsistente. E non solo perché il capo grillino, di fronte alle proteste sguaiate intorno al Tap pugliese, ha pensato bene di irrigidirsi di nuovo nella sua supposta contrarietà alla Tav. Il problema è innanzitutto economico. Con l’Unione europea si era concordato un periodo di non belligeranza: Bruxelles avrebbe sopportato l’impasse in Valsusa senza troppo infierire. “Per tutto novembre, non ci saranno altro che rimbrotti di circostanza”, spiegano i tecnici del ministero dei Trasporti, dove comunque le riunioni operative sulla Torino-Lione proseguono, seppur nell’abituale assenza di Danilo Toninelli. Dopo quella scadenza, però, i richiami della Commissione diventeranno formali, anche in virtù di uno scontro politico che il governo grilloleghista, incaponitosi nella difesa a oltranza della raffazzonata “manovra del popolo”, non ha alcuna intenzione di intiepidire. E a quel punto ogni mese di inconcludenza potrebbe arrivare a costare, per il nostro paese, fino a 75 milioni di euro. Queste sono le cifre che circolano nei corridoi di Porta Pia. Il mancato avanzamento dei lavori si tradurrebbe infatti in un mancato tiraggio di fondi comunitari: e se Bruxelles fino ad ora ha chiuso un occhio sulla stasi dei cantieri, da dicembre in poi potrà iniziare a far scontare all’Italia i suoi ritardi.

 

Senza contare, poi, che in verità le scenografiche carnevalate dei grillini anti Tav finiscono per fare, in una certa misura, il gioco di Emmanuel Macron: e anche questo a Salvini comincia a provocare qualche bruciore di stomaco. Il governo francese non è affatto più entusiasta di quello italiano, in merito all’opera. Certo, Parigi non ha mai posto dubbi sui lavori della sezione transfrontaliera, ma ha preso tempo sulla realizzazione del tratto nazionale, subordinando il via definitivo ai lavori ad un piano generale della mobilità. E tuttavia, nonostante le titubanze francesi, Macron ha al momento buon gioco ad addebitare al tentennante governo italiano, e ai suoi continui ripensamenti dettati dall’ambiguità grillina, la responsabilità della paralisi dei cantieri. E aprire l’ennesimo fronte di ostilità con Bruxelles, nel mentre che si discute della manovra, non è esattamente quello che Salvini vuole. E ancor meno lo vuole il sottosegretario Giancarlo Giorgetti: che per mesi ha dispensato tranquillità, agli interlocutori istituzionali, non solo italiani, che lo interrogavano sulle reali intenzioni dei grillini. E che però, lui per primo, ora dalla tanto annunciata analisi costi benefici voluta da Tonienlli e Di Maio non si attende nulla di buono. La situazione è grottesca: c’è un ministro che da mesi dice di attendere il parere risolutivo di una commissione tecnica, e il direttore di quella commissione – Marco Ponti, già professore al Politecnico con tentazioni No Tav mai davvero rinnegate – che ammette che “la decisione finale, in democrazia, spetta alla politica, e la politica se ne deve assumere la responsabilità, senza delegarla all’analisi costi benefici”. Un italico rimpallo di responsabilità. Certo, nella Lega sanno che quel giudizio non dipenderà dal solo parere di Ponti, ma che anche le strutture del Mit – non proprio favorevoli allo stop ai lavori – avranno il loro peso nella definizione del dossier. Ma insomma questo attendismo esasperato rischia di essere l’ennesimo inciampo per una maggioranza già in forte fibrillazione.

 

Tanto più che l’idea di arrivare fino al maggio 2019 senza prendere una decisione chiara si sta rivelando improponibile: e lo scontro di lunedì sotto Palazzo civico, a Torino, ne è una prova. Perché a primavera, in Piemonte, non si voterà solo per le europee, ma anche per le regionali. E siccome Sergio Chiamparino ha già deciso di fare del suo sostegno alla Tav un punto distintivo del suo programma, e siccome Forza Italia non è mai stata ambigua sulla sua volontà di accelerare i lavori per l’alta velocità, è evidente che anche la Lega dovrà affermare con chiarezza il suo convinto consenso all’opera. E a quel punto per il M5s sarebbe difficile cercare alibi: lo sarà soprattutto per Giorgio Bertola, il candidato governatore grillino fortemente voluto da Laura Castelli per arginare l’ala oltranzista che a Palazzo Lascaris è rappresentata da Francesca Frediani, entrata già più volte in polemica con Toninelli per il mancato stop ai cantieri in Valsusa. Bertola incarna il Movimento di governo: più moderato, più democristiano. Ma quando si arriverà al dunque, perfino per uno come lui diventerà impossibile non prendere una decisione sul da farsi. E a quel punto, delle due l’una: o sancire l’abiura e aizzare la rabbia della base ortodossa, o fare esplodere le contraddizioni tra M5s e Lega. Sempreché, ovviamente, il tutto non precipiti prima. Ché in fondo è questa, la paura di Salvini: non che l’alleato si spacchi, regalando voti e consensi alla Lega, ma che lo faccia troppo presto, mandando a ramengo il governo prima del previsto. 

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