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Il governo vuole indebitarsi per aumentare la spesa previdenziale

Luciano Capone

Un nuovo falò di spesa in deficit per le pensioni. La “rivoluzione” di Lega e M5s è dare a chi ha già preso molto

Roma. La linea del ministro dell’Economia Giovanni Tria per la legge di Bilancio è chiara a tutti e per questo apprezzata da istituzioni e investitori internazionali: leggera riduzione del deficit, stabilizzazione del debito pubblico, riforme fiscali e nuovi investimenti attraverso tagli di spesa o cambiamenti della composizione di entrate e uscite. E’ una posizione molto ragionevole, che si preoccupa della sostenibilità di un debito pubblico al 130 per cento del pil, quindi del futuro del paese e dei suoi giovani. La posizione di Lega e M5s, stando alle quotidiane esternazioni dei suoi esponenti di rilievo, è opposta: aumentare il disavanzo fin dove è possibile per finanziare le promesse elettorali. Questa seconda strategia incontra però un limite reale, che è la capacità di finanziarsi sui mercati, ben descritto dal ministro Tria a Cernobbio: “E’ inutile cercare due o tre miliardi in più di deficit, se ne perdiamo tre o quattro in interessi sul debito”.

 

Il vincolo di realtà impone d’indicare delle priorità e, come accade in Italia da molti anni a questa parte, la scelta cadrà di nuovo a favore dei pensionati.

 

I margini per il governo sono molto risicati: la congiuntura europea sta peggiorando e la crescita italiana di più, sarà poco più dell’1 per cento rispetto all’1,5 previsto (e sarà inferiore alle previsioni anche nel 2019); c’è poi l’aumento dello spread che costerà tre-quattro miliardi in più di interessi; altri tre miliardi costano le spese indifferibili e poi c’è la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia che costa 12,5 miliardi. Sommando tutte queste voci, il deficit per il 2019 – che secondo gli impegni presi nell’ultimo Def dovrebbe essere allo 0,8 per cento – sale a oltre il 2 per cento. Non solo nessun aggiustamento strutturale dello 0,6 per cento raccomandato dalla Commissione europea, ma addirittura un aumento del deficit rispetto all’1,6 per cento previsto per il 2018.

 

E questo a bocce ferme, senza attuare nessuna delle grandi riforme promesse in campagna elettorale: flat tax, abolizione della legge Fornero e reddito di cittadinanza. La flat tax verrà messa da parte perché troppo costosa e probabilmente anche il taglio graduale dell’Irpef voluto da Tria, perché una riduzione di un punto dell’aliquota più bassa (dal 23 al 22 per cento) porterebbe un beneficio a tanti contribuenti ma troppo piccolo. Si opterà per un’estensione del forfait al 15 per cento fino a 65 mila euro per le partite Iva, operazione meno onerosa e che consentirebbe di usare (impropriamente) il termine “flat tax”.

 

La Lega punta tutto sulla controriforma delle pensioni. Matteo Salvini ha parlato chiaramente e in toni perentori: l’obiettivo per andare in pensione è “quota 100” con 62 anni di anzianità, oppure 41 anni di contributi. Un provvedimento del genere è molto costoso. Secondo le stime ufficiali dell’Inps “quota 100” con 64 anni di età o 41 anni di anzianità contributiva costano 11,6 miliardi nel 2019 in aumento fino a 18,3 miliardi nel 2028. Ma Salvini vuole criteri ancora più laschi, “62 anni” ha detto, che vuol dire circa 13 miliardi il primo anno, che vuol dire un altro 0,7 per cento di deficit in più.

 

Il Movimento 5 stelle risponde con il reddito di cittadinanza, che costerebbe almeno un altro punto di deficit. Ma siccome anche i grillini sono consapevoli che tutti questi soldi non ci sono, puntano a un avvio del reddito di cittadinanza: la pensione di cittadinanza, che consentirebbe con 5 o 6 miliardi di portare le pensioni minime fino a 780 euro al mese, la soglia promessa a tutti in campagna elettorale.

 

Con il primo provvedimento, “quota 100”, la Lega favorirebbe il proprio elettorato settentrionale, visto che è soprattutto al nord che si concentrano le carriere lavorative e contributive lunghe e continuative. Con il secondo provvedimento, la “pensione di cittadinanza”, il Movimento 5 stelle favorirebbe il proprio elettorato meridionale, visto che è soprattutto al sud che si concentrano le pensioni minime. La coalizione gialloverde raggiungerebbe così una sintesi perfetta in nome del deficit e delle pensioni.

 

Non sarebbe certamente una scelta lungimirante per un paese con il debito pubblico e la spesa previdenziale tra i più alti al mondo, con una pressione fiscale e contributiva elevata e una dinamica demografici che indica un progressivo invecchiamento della popolazione. Per i giovani, che pure hanno votato massicciamente per due partiti che hanno promesso il cambiamento, non c’è nulla: solo la vaga promessa di prendere il posto di chi lascia il mondo del lavoro e la certezza di doverne pagare la pensione. Ma quanti giovani lavoratori servono per pagare una nuova pensione?

 

Forse è inevitabile, in un paese che invecchia, che a essere predominanti siano gli interessi delle fasce di età più elevate. Ma un paese indebitato che decide di indebitarsi ulteriormente per aumentare la spesa pensionistica, è un paese che non ha futuro.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali