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Prepensionare per fare lavorare i giovani è una truffa

Stefano Patriarca

Anticipare il pensionamento ha un costo rilevante che in un sistema finanziato a ripartizione ricade sui lavoratori in attività

Invertire il trend di aumento dell’età di pensionamento necessario a contrastare un invecchiamento sempre più accentuato e che non ha eguali in Europa, con la proposta di ridurre dal 2019 di ben 5 anni l’età di pensionamento (da 67 a 62 anni) e di ulteriori 2 entro il 2021 per tutti coloro che maturassero da 38 anni di contributi in su, è sicuramente una proposta “forte” per le risorse che mette in gioco (probabilmente nell’immediato tra gli 8 miliardi circa fino ai 13 se accompagnata anche dalla riduzione a 41 degli anni di contributi necessari per accedere al pensionamento a qualsiasi età).

 

Una delle ragioni “suadenti” con la quale si motiva un abbassamento dell’età pensionabile è quella della necessità di fare uscire dal mercato del lavoro, con il pensionamento anzitempo, i lavoratori più anziani per favorire il turn over e ridurre il tasso di disoccupazione delle generazioni più giovani. La riproposizione in altri termini di quel “lavorare meno lavorare tutti” traslata dalla riduzione giornaliera del tempo di lavoro alla riduzione del tempo di lavoro durante la vita. La ricetta salvifica si trasforma dal vecchio slogan “35 ore a parità di salario” al nuovo imperativo: pensione piena a 62 anni (ed entro i prossimi due anni perché no anche a 60, sempre, s’intende con il fine sociale e disinteressato di dare un chance occupazionale ai giovani). Ma questo schema “fascinoso” alla prova dei fatti si rivela purtroppo poco consistente, come del resto si è rivelata illusoria la crescita occupazionale connessa alle 35 ore (l’esperienza francese ne fa fede). La letteratura economica ci sottolinea come nelle esperienze europee non sia provata la connessione tra aumento dell’età di pensionamento e tasso di occupazione. Peraltro se così fosse non si spiegherebbe la compresenza in Italia in buona parte degli anni 2000 di un’età di pensionamento effettiva tra le più basse d’Europa e un livello più alto degli altri paesi della disoccupazione giovanile. Si rammenti che nel 2017 l’età di pensionamento effettiva per le pensioni di anzianità (quelle delle quali si sta discutendo di una riduzione dell’età) e che costituiscono ben il 65 per cento delle nuove pensioni liquidate è stata di 61,3 anni, di ben 5 anni inferiore dell’età legale di pensionamento di vecchiaia.

 

Peraltro dal 2014 al 2017, a fronte di un aumento dell’età effettiva di pensionamento di anzianità di circa 1 anno, si è riscontrato un aumento del tasso di occupazione giovanile. Non si vuole certo sostenere che non vi sia un rapporto tra tasso di occupazione giovanile e età di pensionamento, ma purtroppo questo è intermediato da fattori più complessi. Le esperienze di incremento occupazionale legato a processi di turn over non possono essere affidate a equazioni macroeconomiche non dimostrate, ma sono efficaci solo se praticate con strumenti aziendali solidaristici che governino effettivamente uscite e nuova occupazione, oppure con formule “cogenti” di incrementi occupazionali a fronte di uscite per pensionamenti, che coniughino ad esempio part time e pensione ao obiettividi incremento occupazionali. Le connessioni macroeconomiche sono invece labili.

 

Un’interessante ricerca dell’Istat di qualche anno fa ha dimostrato come non ci sia coincidenza tra tipologie di imprese che hanno necessità di “alleggerirsi” di manodopera e quelle che hanno più alti fabbisogni occupazionali. Non solo, ma non si può non tenere conto che in un sistema come il nostro, nel quale si può avere la pensione (in particolare quella di anzianità e non solo quella di vecchiaia) e continuare a lavorare senza vincoli, anche come lavoratore dipendente o come autonomo, non è detto che il pensionamento liberi spazi occupazionali.

 

E soprattutto occorre considerare l’insieme dei fattori che determinano le dinamiche occupazionali. Tra questi i costi dell’operazione e il contesto di finanza pubblica nel quale si opera. A chi perora la necessità del pensionamento anticipato per i sessantenni come strumento per far largo ai giovani, si deve ricordare che agli stessi giovani si sta proponendo una sorta di patto leonino. Anticipare il pensionamento ha un costo rilevante, costo che in un sistema finanziato a ripartizione ricade sui lavoratori in attività, in termini o di incremento dei contributi o di incremento del deficit se si ricava dall’indebitamento le risorse per finanziare l’operazione. Per avere un’idea delle quantità in gioco basta pensare che per coprire il costo di un anno di pensione di anzianità goduta in anticipo, che mediamente si colloca attorno a 29 mila euro lordi annui, occorrono i contributi sociali corrisposti da ben 5 lavoratori dipendenti giovani (una retribuzione media mensile di 1.100 euro nette dà luogo a circa 5.600 euro annui di contributi previdenziali a carico del lavoratore e dell’impresa).

 

Nel caso in cui l’operazione fosse finanziata con un aumento di deficit pubblico, come sembra che si proponga, ricercando le risorse in una maggiore quantità di spesa non coperta da entrate, il prezzo che un giovane dovrebbe pagare per un ticket d’ingresso tra gli insider sarebbe ancora più rilevante. Infatti alla spesa pensionistica aggiuntiva si aggiungerà il costo dell’indebitamento, tale da determinare tra dieci anni un incremento dell’incidenza della spesa pensionistica sul pil fuori linea rispetto alla traiettoria di stabilizzazione finanziaria della spesa sociale, necessaria per garantire sia le prestazioni alle future generazioni. A quel punto l’inevitabile correzione delle dinamiche interesserà giocoforza le pensioni dei più giovani collocandosi proprio nel periodo nel quale le tendenze demografiche determineranno un innalzamento (gobba) dell’incidenza della spesa pensionistica sul pil anche a legislazione vigente.

 

Insomma l’asserita, ma non certa, costruzione di uno spazio occupazionale a seguito di prepensionamento non è a costo zero per il giovane, c’è un prezzo da pagare nell’immediato e tra qualche anno, una sorta di ticket per pagare la pensione a chi ti “lascia il lavoro”.

 

Che aumentare la spesa pensionistica sia il viatico per nuova occupazione assume il valore di una sorta di alibi. Non si può non considerare che un miliardo di spesa pensionistica aggiuntiva per anticipare il pensionamento è equivalente al costo del lavoro per 35 mila giovani e ai contributi pensionistici pagati da 200 mila giovani lavoratori.

 

Un paese responsabile nei confronti delle nuove generazioni utilizzerebbe le risorse per investirle in crescita e occupazione, magari tutelando meglio la flessibilità di uscita proprio dei giovani e delle fasce deboli e disagiate.

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