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In morte del centrodestra

Alessandro Barbano

Ma quale alleanza! Rinunciare a capire la svolta grillina di Salvini significa rinunciare a sfidare il populismo

Fin qui il contratto senza alleanza è parso un patto privatistico tra soggetti politici che diffidavano l’uno dell’altro, incapaci, per mancanza di grammatica istituzionale, di assumere una responsabilità strategica delle sorti del paese fondata sul compromesso, ma capaci di dividere verticalmente lo spazio della democrazia, in nome di una tacita complicità. Per cui ciascuno si sentiva responsabile di fronte agli elettori della propria parte di programma, tant’è vero che la Lega ha sottoposto al voto nei gazebo solo la sua, e non anche quella dei Cinque stelle. 

 

Cosicché questi ultimi hanno riscritto le regole del lavoro e dell’economia nel loro lessico antindustriale e pauperistico, senza che Salvini aprisse bocca. Lui invece ha serrato l’Italia in un grugno securitario e ha fatto man bassa della Rai e della prassi istituzionale nel silenzio di Di Maio, e soprattutto di Fico. Che, in altri tempi, per la solidarietà e per il rispetto delle forme nella tv pubblica si sarebbe stracciato le vesti. Qualcosa però sta cambiando. E lo spartiacque di questa mutazione sembrano essere le elezioni abruzzesi, dove, dopo gli ultimi screzi con Berlusconi, Salvini fa sapere, nell’intervista di sabato con Annalisa Chirico sul Foglio, di sentirsi con le mani libere. E avvisa il “quasi ex” alleato: “Non è scontato che la Lega, in assenza di un programma comune e di un candidato comune, vada con Forza Italia”.

  
Non è solo un avvertimento tattico, ma una virata che il leader sovranista sta imprimendo al suo movimento in una direzione di maggiore radicalità, che lo porta sempre più ad allontanarsi dall’alleanza di centrodestra e ad avvicinarsi al fronte pentastellato. Salvini si stupisce che Forza Italia voti, insieme con il Pd, contro la riduzione del rito abbreviato nel processo penale, contro la nomina di un oscuro integralista alla presidenza della Rai, ma anche contro l’abolizione dei “famigerati” vitalizi e perfino contro il decreto dignità, che difende a spada tratta giudicandolo addirittura “sacrosanto”, come se fosse una sua creatura, e derubricando la rivolta della Confindustria veneta alla protesta di “alcuni imprenditori schierati”. La forbice ideologica tra i due programmi gialloverdi e tra i due alleati di governo si restringe per la prima volta fino a coincidere quasi del tutto, soprattutto sul fronte economico, dove Salvini e Di Maio paiono fratelli gemelli di quel radicalismo anti liberale che vede nel capitalismo il suo nemico e che da sempre avvicina nel giudizio pensieri “estremi” di destra e di sinistra.

 
Se pure il leader leghista difende le grandi opere contro la furia luddista del Movimento, tuttavia non manca di coprire le spalle al socio pentastellato rispetto all’idea di chiudere gli esercizi commerciali la domenica e, soprattutto, rispetto all’idea di bocciare l’accordo di libero scambio con il Canada, finito già nel mirino di Di Maio. In questo caso fa suo un tic classico dei Cinquestelle, che definiremmo la sindrome della sineddoche: consiste nell’abitudine a giudicare il tutto per una sola parte. Così Salvini replica la gaffe del suo alleato e assume la lamentela di alcuni settori della Coldiretti come la prova regina per gettare alle ortiche il Trattato commerciale, ignorando che questo regola e rilancia un interscambio di cinque miliardi di euro e un surplus commerciale di tre, coinvolgendo gran parte dell’eccellenza industriale e manifatturiera italiana, dall’aerospaziale all’elettrico, dalla nautica alla moda, fino all’agroalimentare e ai produttori di formaggi.

  

Senonché sono proprio questi ultimi a reclamare maggior tutela dalla concorrenza del Parmesan canadese, ma anche a rappresentare meno dell’1 per cento dell’intera partita. La visione della loro frazione minimale diventa, nell’infausta sintesi dei due leader populisti, la visione del governo, confermando il tragico divorzio dei poteri dai saperi che segna questa stagione politica, ma anche un collateralismo corporativo che va instaurandosi tra i nuovi alleati a Palazzo e certi segmenti organizzati della società italiana, portatori di interessi sempre più particolari e sempre meno intermediati dalle forme classiche della rappresentanza politica.

   
A ben guardare, da un punto di vista ideologico l’intervista di Salvini prova, se non un cambiamento di strategia, certamente un suo disvelamento, destinato a ripercuotersi dentro e fuori l’universo leghista. C’è un elemento psicologico che aiuta a interpretarla nel verso più corretto: il Foglio è manifestamente critico con il leader leghista, di cui non manca di sottolineare il tratto superficialmente estremista e per certi versi eversivo. Nella preoccupazione di sfidare questo stereotipo, e di fronte alle domande incalzanti di un’intervista finalmente non “seduta”, Salvini getta la maschera e scopre per intero la sua cifra populista, consonante tanto con il radicalismo di marca grillina quanto con le nostalgie di una destra sociale d’antan.

 

Ma questa cifra rimanda a due interrogativi. Il primo riguarda la Lega, il suo gruppo dirigente e le sue aspettative: come si concilia il nuovo assetto strategico con il tentativo di costruire da destra il partito della nazione, convincendo, non solo qualche deputato forzista in crisi di identità, ma anche una classe dirigente liberale e moderata, oggi senza casa e senza guida, ma non del tutto priva di convincimenti ideali? C’è da ritenere che la questione qui posta rischi nel tempo di diventare un tarlo, se non nella coscienza di Salvini, certamente in quella di altri maggiorenti del Carroccio.

  
Il secondo interrogativo riguarda Berlusconi: che interesse ha Forza Italia a condividere, in condizioni di evidente subalternità, un’alleanza sempre più onerosa con un alleato così scomodo? E ancora nel merito: che convergenza può esserci tra programmi ormai così distanti? Queste domande, rimaste sostanzialmente inevase da almeno due mesi, cioè dalla nascita del governo gialloverde, oggi si parano come una montagna sul cammino del centrodestra italiano. La preoccupazione di non rompere il sottilissimo filo che lega l’alleanza ha indotto in una prima fase lo stesso Berlusconi e una parte del suo entourage a minimizzare le distanze, nel tentativo di tenere aperto il dialogo con Salvini.

  

Col tempo però il leader azzurro va comprendendo che questa scelta ha un prezzo: impedisce a un partito logoro di avviare un’opera di reale rinnovamento, ridefinendo le categorie del liberalismo di fronte alle nuove asimmetrie della globalizzazione e di fronte al declino di un Paese che fatica a togliere la sordina alla crescita. Ma, soprattutto, questa prudenza autorizza una parte dell’intellighenzia azzurra, politica e intellettuale, a continuare a esibire atteggiamenti e istanze radicali di marca salviniana, vuoi perché li condivide, vuoi perché teme maldestramente di essere scavalcata a destra e di perdere consenso tra un elettorato che va radicalizzandosi.

  
Così, mentre Tajani e Brunetta si sbracciano per marcare le differenze con l’ormai ex alleato, il Giornale rileva soddisfatto a tutta pagina che Salvini, nella sua “Intervista rivelatrice”, dimostra di avere “più contrasti con i Cinquestelle che con Forza Italia”, quasi che bastasse questo confronto a tranquillizzare il popolo azzurro. E se il leader leghista dichiara nel colloquio con il Foglio di non essere giustizialista, ciò rassicura il quotidiano azzurro, che finge di ignorare quanto giustizialismo ci sia nel contratto di programma sottoscritto dalla Lega con i soci grillini.

 

Allo stesso modo c’è chi pensa che, per sfidare la suggestione securitaria di Salvini, basti anticiparlo, presentando, in concorrenza con lui, una via liberale alla legittima difesa, e ignorando che l’unica sfida ancora possibile con la Lega non può che giocarsi sulla capacità di ribaltare l’agenda delle priorità del paese. In questa subalterna fascinazione esercitata dal nuovo leghismo c’è tutta la debolezza culturale del centrodestra italiano, arroccato in una ridotta difensiva da cui fa fatica a uscire. E in cui rischia di essere risucchiato dall’aggressività mediatica del caudillo post-padano.

 
A destra come a sinistra, così i moderati hanno perso il loro tradizionale primato: vergognandosi della propria moderazione, hanno rinunciato a sfidare il populismo, anzi hanno finito per imitarlo e inseguirlo per paura di essere sorpassati. E ora che le mani del populismo sono strette sulla loro gola, rischiano la fine del signor K nel processo di Kafka: morire come un cane, lasciando che di loro non resti che la propria stessa vergogna.