The Course of Empire, di Thomas Cole

L'urgenza della lingua di fuoco

Giuliano Ferrara

Senza una nuova energia spirituale, combinata con l’ironia, il sarcasmo e la prosa di una società secolarizzata, senza fuoco linguistico il mugugno di stato lo terremo per un tempo troppo lungo. Cosa manca per ribellarsi al nuovo animus nazionale

Quello che serve è “la lingua di fuoco”. Provo a spiegarmi. Questo governo non è un governo. Certo, è un esecutivo fondato su una coalizione parlamentare di maggioranza, ma esprime qualcosa di più, è un fenomeno e il riflesso di un fenomeno. Le radici della svolta del 4 marzo scorso sono italiane e mondiali. Il conflitto sulla società aperta, concetto forse vago e confuso, ma chiaro alla luce del suo opposto, la società chiusa, il risentimento contro un minimo di speranza, la brutalità di una rottura percepita come necessaria, o inevitabile, contro la buona continuità con le cose migliori prodotte dalla tumultuosa uscita dal ferrigno Novecento, questo conflitto che ha nome Trump, Brexit, Putin e si configura come un attacco all’Europa occidentale nella sua disperante ma immane battaglia per preservare criteri di pace, di scambio, di prosperità e buona modernità, è qualcosa di diverso da una successione di fatti politici, dei quali il nuovo governo italiano è l’ultimo in ordine di tempo e forse il più terribilmente significativo. 

  

Il linguaggio che adoperiamo per contrastare il fenomeno, che non è il Maligno ma ha una brutta faccia demagogica, plebiscitaria, vetero nazionalista, è quello usuale, consueto alle vecchie abitudini politiche. In parte è logico che sia così. I governi si giudicano e diventano oggetto di controversia e di piattaforme alternative sulla base dei decreti che approntano, delle leggi di stabilità, degli effetti economici e sociali, dei comportamenti istituzionali, delle dichiarazioni dei ministri eccetera. Il direttore di questo giornale dice che, come nel caso dei vaccini, sì o no, bisogna semplificare e prendere posizione, e ha ragione. Ma c’è un problema in più. La lingua della politica cosiddetta politicante, detto senza moralismi, il codice professionale che si conosce, arriva fino a un limite oltre il quale, specie nel caso di un evento che nasce nella rivoluzione dell’opinionismo digitale impazzito, non ce la fa a procedere. Se ci opponiamo solo a quel modo a ministri e leader che sono effetto, e in parte causa, di una ventata di pregiudizio e di marasma irrazionale, non se ne esce, almeno per adesso, e ogni ottimismo è precluso. Va’ a spiegare che con il precariato e il fermo alle grandi opere o all’acciaio si aboliscono lavoro, occasioni, sviluppo: il termine “dignità” o il drappo rosso dell’ambientalismo ti sistemano subito; va’ a spiegare che i vitalizi sono un problema ridicolo in rapporto al “no” opposto al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari o alla realizzazione delle promesse di risanamento disattese perfino rispetto alle pretese dei demagoghi antiparlamentari, una anche stanca ripetizione della filastrocca sui poteri forti e le élite contro il diritto alla trasparenza e all’onestà del popolo ti sistema subito; va’ a segnalare che alligna la rivolta dei mercati e degli investitori contro un debitore che non si preoccupa della propria solvibilità, c’è il mito di Soros o di una cattiva strega residente a Bruxelles in agguato, e per la possibile crisi d’autunno è pronta una piattaforma di rilancio della rottura anche in vista delle elezioni europee della primavera 2019. 

 

Vabbè, bisogna fare anche questo, ma non basta. Penso che la buona gente italiana e brava, cosiddetta, che mostra un’attitudine malmostosa in maggioranza, e non sopporta né i tecnicismi della buona politica e razionale né i precetti perbene della vecchia concezione di sinistra dell’opposizione tra progressisti e reazionari (i conservatori sono decisamente di lato), può risvegliarsi come comunità meno permeabile alle sparate dei demagoghi nazionalpopulisti se le si offrano buone prediche, e uso non a caso un termine religioso che fu assunto da quel grande retore del liberalismo che fu Luigi Einaudi (“Prediche inutili” è il titolo di una sua raccolta di saggi). Oggi forse, digitali o di strada, le prediche sono l’unica cosa utile di cui abbiamo bisogno, se sia vero che in ballo non c’è solo una alternativa a una maggioranza parlamentare qualsiasi ma il contrasto a un animus nazionale e mondiale che porta tempesta e tristezza. Combinazioni politiciste euroforbite valgono quel che valgono, poco o punto, ma è urgente trasmettere con l’immaginazione creatrice e la foga della giustizia il disprezzo per quella premessa di ostilità, se non di guerra, che sono certe concezioni del banditismo tariffario, delle frontiere impenetrabili, della disumanità egualmente putrida della caccia o del respingimento dello straniero, secondo canoni cristiani e antica saggezza pagana alla stessa stregua, e usare toni non apocalittici ma disvelatori nel figurare come il declassamento di una parte del ceto medio e popolare può solo incancrenirsi quando si adottino le procedure anticrescita di una società autarchica e respingente. 

 

Nathaniel Hawthorne con la “Lettera scarlatta” scrisse a metà dell’Ottocento il racconto mistico di una comunità affetta da triste conformismo, i puritani del Seicento nella Nuova Inghilterra. E’ uno dei tre quattro libri di quel secolo così generoso nell’arte del romanzo. Al centro del racconto sta il grande peccatore e redentore, il pastore Dimmesdale. Parlando dei confratelli del pastore, Hawthorne scrive (pagina 146 della edizione Bur del 1983): “A tutti questi mancava il dono che discende sugli apostoli eletti il giorno della Pentecoste sotto forma di una lingua di fuoco, che simbolizza non la capacità di parlare dialetti stranieri e sconosciuti, ma quella di rivolgersi all’umanità con il linguaggio del cuore. Questi confratelli, pur così degni, non avevano ricevuto dal Cielo il dono più raro: la lingua di fuoco”. Facciamo tutta la tara che volete, ma senza una nuova energia spirituale, combinata con l’ironia, il sarcasmo e la prosa di una società secolarizzata, senza questo fuoco linguistico il mugugno sociale e di stato ce lo terremo per un tempo forse troppo lungo. 

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.