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Il centrodestra annichilito può ripartire solo da una scelta di campo liberale

Maurizio Serio

Esistono ancora, in Italia, elettori moderati? E, nel caso, qual è il loro peso nel centrodestra, a prescindere dalle offerte politiche ora in campo?

Al direttore - I sondaggi, qualunque valenza si voglia attribuir loro, sono chiari: la maggioranza di governo, per quanto la si possa giudicare male assortita e instabile, rasenta il sessanta per cento; Forza Italia è ai minimi storici. Qui siamo oltre la stessa categoria di “crisi”, che per esempio si può attribuire alla situazione del Partito democratico, che si attesta al diciotto per cento. Lo scenario che si profila davanti agli elettori moderati è l’annichilimento pratico di questa opzione politica. La domanda però è d’obbligo: esistono ancora, in Italia, elettori moderati? E, nel caso, qual è il loro peso nel centrodestra (ormai derubricato a nom de plume buono solo per i sondaggi), a prescindere dalle offerte politiche ora in campo?

 

Invero, la base sociale di questa cultura politica un tempo era molto più chiara, tenuta insieme anzitutto dal collante dell’anticomunismo, una posizione certo meno sbandierata dello speculare antifascismo anche perché non in grado di garantire le stesse rendite, ad ogni livello: politico, culturale, di status. Laddove l’antifascismo è stato un fenomeno di masse e delle masse, l’anticomunismo si è ritagliato lo spazio di una attitudine individuale di opposizione a questa massificazione della coscienza politica, e come tale ha fornito uno scarno contenuto ideologico a quelle forze politiche che hanno tentato, a volte con successo, di rappresentarlo. In altre parole, c’era bisogno di più di questo per poter aspirare a diventare cultura maggioritaria nel nostro paese.

 

All’uopo venne in soccorso la sedicente “rivoluzione liberale”, un sogno enunciato in uno slogan anche lessicalmente male assemblato, ma bastevole per mobilitare la mitica maggioranza silenziosa che fremeva sotto le ceneri del compromesso catto-comunista. Un sogno e uno slogan, appunto, niente di più. Sul quale hanno gravato e gravano ancora fenomeni completamente antitetici a quella che avrebbe dovuto essere la sua ispirazione di fondo, come il conflitto di interessi, il leaderismo ossessivo, il centralismo plebiscitario, il disprezzo delle regole, il sovranismo. La rivoluzione, insomma, si era fatta manutenzione conservatrice di interessi e rendite che la allontanavano inesorabilmente dall’ispirazione liberale.

 

Alle soglie del terzo millennio, un’evoluzione (involuzione?) in senso identitario di questa offerta politica ha portato a scimmiottare le culture war neoconservatrici di stampo nordamericano, alla ricerca di un consenso politico attorno alla difesa dei cosiddetti valori non negoziabili, dove alcuni movimenti hanno avuto più responsabilità di altri nella confusione che si è venuta a creare tra religione e politica, e nel presentare come pensabile addirittura uno iato tra valori cristiani di destra e valori cristiani di sinistra. Il compianto Navarro-Valls lo ricordava qualche anno fa in un editoriale per Repubblica, non esattamente un quotidiano filocattolico: “Un ethos è autenticamente tale, però, quando riesce a conformare una visione intera della vita, altrimenti perde ogni credibilità. Un ethos asimmetrico, settoriale, manca di razionalità. Una visione etica settorializzata, fatta a macchie di leopardo, assomiglia ad una persona che dice la verità solo ogni tanto e vuole essere creduta sempre. Non si può utilizzare un valore etico contro un altro”.

 

L’allora centrodestra scelse comunque, con pochi distinguo interni, questa strada. Un altro modo di guardare indietro mentre problemi ben più complessi affollavano il presente. Un modo per dirsi diversamente conservatori, e per farsi invece travolgere dalla radicalizzazione dei costumi, privati e pubblici, che ha sovvertito l’impianto cristiano della nostra società. Un modo per impostare quella politica della paura, che oggi, con un oggetto ancor più circoscritto e con metodi più violenti riesce finalmente a produrre il consenso elettorale sperato. Ma a che prezzo. Ad ogni modo, dopo la liquidazione della dottrina economica liberale, derubricata a mero manualetto per un risibile contenimento della pressione fiscale, si consumò così anche l’accantonamento di quell’antropologia liberale che non rinuncia a propugnare valori e principi, ma evita di perseguirli in maniera agonistica, in quanto convinta che non possano essere imposti per via autoritativa né governabili dalle leggi del mercato e dello scambio.

 

Perduto dunque qualunque riferimento metapolitico, sono emerse al tempo stesso tutte le abilità e le lacune tattiche degli interpreti principali del centrodestra, così come dei loro succedanei: animatori di piazze più vuote di un tempo, conversatori sempre meno brillanti nei talk show, ormai principianti della comunicazione via web e surclassati nell’uso dei social, fino a essere rinunciatari nella proposizione di un’agenda politica che puntasse ad essere maggioritaria, e a rinchiudersi nell’orticello ad esaurimento degli affezionati o dei nostalgici. Tutto ciò dovrebbe servire a ricordare che, nell’attuale congiuntura mondiale, e italiana in particolare, se è lecito sperare un riposizionamento di questa cultura politica, occorre che una scelta venga fatta. Si può essere conservatori o liberali, non entrambe le cose, come è accaduto sinora con i vari poli e popoli della libertà. Essere convintamente dei secondi significa guardare con fiducia alle sfide presenti: sul piano dell’economia (bando al protezionismo), del lavoro (con l’innovazione 4.0), delle relazioni internazionali (il sovranismo è un vicolo cieco), dell’ambiente (per una crescita integrale e non per una decrescita insostenibile), della cultura (investire ad ogni livello nelle eccellenze, senza cedere alla retorica parasindacale merito/disuguaglianza), della questione migratoria (l’accoglienza è il destino dell’Europa, per non morire su se stessa). Certo, questo non è un programma da tutti. Ma può esserlo per tutti, a cominciare da quei “liberi e forti”, come li chiamava Sturzo cento anni fa, che non si rassegnano al populismo illiberale e ai suoi (mal)costumi.

 

Maurizio Serio, storico delle dottrine politiche, Università Guglielmo Marconi

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