L'Italia laboratorio o frullatore?
Sinistra senza popolo, destra sociale, gentrification. La resistibile ascesa del nazionalpopulismo
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Claudio Martelli, mercoledì 27 giugno 2018 al Teatro Franco Parenti di Milano, per il ciclo “La resistibile ascesa del nazionalpopulismo”.
Quella che una volta era uso chiamare sinistra storica non c’è più. Ha smesso di esistere perché ormai da tempo prima concretamente poi anche idealmente la sua funzione storica si è esaurita. Perché si è esaurita – è bene ripeterlo – non perché abbia fallito, al contrario, perché ha realizzato il suo compito. Lo aveva già intuito Ralph Dahrendorf parlando de “Il secolo socialdemocratico”. Beninteso, questo processo e il suo esito non riguardano solo l’Italia ma l’insieme della socialdemocrazia continentale europea. Diverso – e la diversità merita di essere studiata - il destino del laburismo britannico e del partito democratico americano. Naturalmente ciascuna delle sinistre nazionali ha impresso una propria curvatura allo stesso processo. Ma mentre il New Deal di Roosevelt in America, il Welfare State di Beveridge e Keynes nel Regno Unito e in Scandinavia si sviluppano prima o intorno alla metà del ‘900 il socialismo latino conosce una storia diversa. In Francia, a parte la breve stagione del Front populaire (’36-’38) la SFIO è troppo debole e compromessa con i governi centristi della Quarta Repubblica per segnare di sé un’epoca. Solo alla fine degli anni ’70 e negli ‘80 Francois Mitterand e la sua rifondazione del Parti Socialiste produrranno dopo l’iniziale svolta di stampo giacobino qualcosa di simile alla socialdemocrazia nordica. Molto segnate dalle condizioni politiche nazionali e dall’impronta personale dei leader fondatori saranno anche la nascita e le vicende del PSOE di Felipe Gonzales in Spagna, del ASP portoghese di Mario Soares e del Partito Socialista di Grecia di Andreas e George Papandreu.
Da noi il processo ha avuto un andamento particolare e non è stato vissuto nella sua coerenza sostanziale a causa delle divisioni della sinistra e delle oscillazioni socialiste. Il PSI arrivò all’appuntamento di governo negli anni sessanta dunque in ritardo e non senza contraddizioni (scissione PSIUP, unificazione e poi scissione con il PSDI). E’ solo allora e non negli anni trenta e quaranta com’era accaduto nel Regno Unito e negli USA che il partito socialista (con la sinistra sociale e sindacale cattolica, da Vanoni a Pastore a Donat Cattin e con il PRI di La Malfa) imposta la programmazione economica e una strategia riformatrice. La caratterizzano l’intervento dello Stato nelle strutture e nelle infrastrutture produttive (nazionalizzazione dell’energia elettrica, approvvigionamento energetico pubblico, reti autostradali ecc.) e le riforme del mercato del lavoro (statuto dei diritti dei lavoratori di Brodolini e di Gino Giugni, aumenti salariali e pensionistici automatici legati all’inflazione dal meccanismo della scala mobile). Anche la scuola media dell’obbligo e l’università di massa realizzarono un imponente trasferimento di risorse e, si direbbe oggi, un diverso equilibrio tra le classi sociali, tra élites e popolo. L’introduzione del divorzio e la legalizzazione dell’aborto che negli anni successivi verranno confermati da due referendum popolari completando i grandi progressi di quella fase.
Il PCI dopo un’iniziale cauta apertura di Togliatti resterà all’opposizione di questo processo guidando la classe operaia sindacalizzata contro la stagione delle riforme che bollò come “ristrutturazione neo capitalista”. Dopo la rivolta studentesca del ’68 l’opposizione comunista nel ‘69 si schierò con l’autunno caldo di imponenti agitazioni sindacali, le sue battaglie giuste e anche quelle sbagliate.
Ebbene, malgrado le opposizioni di destra e di sinistra, al termine di questa fase una parte importante dei compiti della socialdemocrazia era stata realizzata.
Solo nei successivi anni ‘70 lo stesso PCI assumerà un atteggiamento più moderato con la strategia del compromesso storico e con la tattica parlamentare consociativa. Nonostante il terrorismo rosso e la strategia della tensione volessero impedire questo sbocco finirono col favorirlo e alla fine degli anni settanta sia pure per un breve periodo tutta la sinistra italiana entrò nell’area di maggioranza.
Alla fine degli anni ’70 negli USA era presidente il democratico Jimmy Carter e nel Regno Unito era premier il laburista Callaghan. Un anno dopo Margaret Thatcher e Ronald Reagan conquistano il potere - e al potere resteranno a lungo, molto a lungo, loro e i loro eredi – e tutto cambia.
Insieme alla sfida all’URSS – “impero del male” – la spinta liberista si esprime con la deregulation, lo Stato minimo, lo sprigionamento degli animal spirits del capitalismo. Le riforme restauratrici - ossimoro politico della Thatcher e di Reagan - conquistano le élites del denaro ma fanno proseliti anche nelle classi e negli individui meno abbienti che nel cambiamento credono di trovare la propria occasione.
Le innovazioni tecnologiche nel terziario e in particolare nella comunicazione già allora negli USA davano lavoro al 50 per cento degli occupati. Veniva affermandosi una nuova ideologia o, se preferite, una nuova narrazione che contrapponeva gli individui alla società e li spingeva alla rivolta contro lo stato invadente, contro i costi e gli sprechi delle architetture pubbliche. In verità, sotto il velo anarchico, la volontà era quella di indebolire gli avversari e di riplasmare Stato e società a misura delle imprese. La rivoluzione tecnologica – elettronica, informatica, digitale – innescata dalla ricerca militare ha poi invaso tutte le sfere, civili, amministrative e produttive, e persino la vita privata.
Vidi la tendenza in atto e già nel 1982 la descrissi osservando che “la realtà virtuale sta sopravanzando la realtà effettuale, la condiziona e la domina”.
Eppure pensavo che la fase nuova dovesse essere interpretata e che il cambiamento potesse essere governato da una prospettiva di sinistra o di centrosinistra. Che vuol dire governare il cambiamento? Vuol dire che l’energia che sprigiona il cambiamento va sfruttata e guidata non soffocata non demonizzata, ma bilanciata in modo che non generi diseguaglianze sempre più grandi sempre più inique. Come? Per esempio premiando il merito, aprendo la strada ai talenti e liberando quante più persone si può dal bisogno. Scelta non solo giusta in se ma capace di aprire percorsi paralleli e alternativi per chi non ha ereditato privilegi o vantaggi dalla lotteria della fortuna. Premiare il merito significa mettere o ri-mettere in moto l’ascensore sociale soprattutto nei periodi di stagnazione. Ma significa anche aiutare chi è oppresso dal bisogno, trasmettere a chi sta sprofondato nell’emarginazione una speranza e un esempio: virtuoso, praticabile, contagioso. Se è vero che il libero mercato in tanto si giustifica in quanto produce più prosperità di qualunque altro sistema economico, se è vero che anche gli spiriti animali del capitalismo generano progressi, progressi anche maggiori li genera l’accesso di masse crescenti di individui all’istruzione, al lavoro e alle professioni, al farsi essi stessi imprenditori. Una società aperta è una società più equa, ma anche una società più equa è una società più aperta, più dinamica, più prospera. L’equità genera più equilibrio ma anche più dinamismo perché accresce le opportunità e il numero di chi partecipa alla gara.
Oggi è di moda parlare male della globalizzazione, accorgersi che non è tutto oro quel che luccica nella crescente interdipendenza tra le economie e gli stati. E’ di moda scoprire quali conseguenze ha avuto per noi non il ri-emergere dopo un sonno secolare di grandi, immensi paesi come la Cina, come l’India, tornati protagonisti della storia del mondo. Questo spettacolare avanzamento di metà dell’umanità comporta anche perdite e squilibri e conseguenze indesiderate. Tanto più paurosi quanto il progresso è stato rapido e tumultuoso. Eppure, in Cina e in Asia, fino a ieri anche in Brasile, nessuno rimpiange il passato. Né noi possiamo ergerci a giudici morali delle sofferenze vissute da altri popoli.
Quanto era costata la nascita della società industriale in Inghilterra e in Europa? Ben prima de Il Capitale di Marx a descriverla nella sua crudezza ci avevano pensato Charles Dickens coi suoi romanzi e Pierre-Joseph Proudhon con la sua Filosofia della miseria. E quanto è costata al popolo russo la rincorsa pianificata a quel progresso che Lenin definì come “Soviet più elettrificazione”?
Dunque, anche prima de Il Capitale nel XXI secolo di Piketty nessuno poteva dubitare che la globalizzazione degli anni ’90 - per esempio, lo sviluppo del capitalismo comunista cinese - avrebbe comportato distruzioni ambientali, squilibri, sacrifici umani inenarrabili.
Ma guardiamo a quelle che sono state le conseguenze della globalizzazione per noi occidentali. Dopo l’iniziale euforia per la conquista di nuovi mercati sono arrivati i dubbi e poi l’angoscia di dover cedere terreno – quanto fino a che punto? - a nuovi inarrestabili concorrenti. E’ nata così una contro narrazione pessimista nutrita di esempi negativi, poi assurta a ideologia della paura. Paura del presente e del futuro. Davvero è a rischio la supremazia occidentale? Si sta forse avverando la profezia di Lenin che parlando da asiatico più che da europeo profetizzò “i capitalisti ci venderanno anche la corda per impiccarli?”
O siamo in preda a una paranoia, a una malattia senile della psiche e della cultura occidentali che non accettano di convivere alla pari con chi si è liberato dal sottosviluppo?
E quali risposte a tanti allarmi sono state elaborate? E’ possibile un ordine mondiale, un ordine economico e politico, senza più potenze egemoni a ovest come a est? O il buon senso e l’esperienza - la faccia buona della real politik - hanno ragione a ricordarci che ci sarà sempre una gerarchia tra super potenze, potenze medie, potenze regionali e piccole patrie? E’ possibile un nuovo ordine che non sia una nuova spartizione del mondo com’era nei piani di Putin e Trump prima che esplodessero le rivelazioni sul Russia gate? E i popoli che ancora lottano per la loro terra, per la loro indipendenza, per preservarle o per conquistarle, vogliamo ascoltarli, aiutarli o preferiamo ignorarli perché minacciano la stabilità?
Osserviamo senza panico, senza isterismi lo strapotere della finanza internazionale quell’intreccio tra capitali e tecniche informatiche che ha creato una specie di sopramondo. Sopra di noi si muove un’immensa massa finanziaria che vale venti volte il PIL di tutte le nazioni del mondo. Questo sopramondo crea e distrugge senza soste, attaccando ora questo ora quello stato indebitato, questa o quella moneta, arricchendo e impoverendo a dismisura, delocalizzando le imprese, qui aprendo là chiudendo fabbriche, qui creando posti di lavoro, là distruggendoli. Ebbene, questo potere senza misura e senza controllo deve servire solo a se stesso e diventare padrone di tutto? O c’è modo di frenarlo questo potere? E qual è, dove è insediato, oggi, se c’è, il potere superiore? Dov’è questo katecon che frena, che regola e può imporsi sulle scorrerie della finanza? Nel Fondo monetario Internazionale? Nell’Organizzazione Mondiale del Commercio? Nei loro equivalenti politici mondiali e regionali come l’ONU, l’Unione Europea, le organizzazioni trans atlantiche e trans americane e oceaniche?
Al netto dei loro limiti e dei loro dogmi liberisti, queste organizzazioni oggi sono contestate dai nuovi potenti delle vecchie nazioni. Non solo, assistiamo a uno spettacolare rovesciamento dei ruoli. La Cina capitalista e comunista difende il libero commercio mentre pratica il dumping sociale e ambientale. Invece l’America, ieri idra rampante della globalizzazione, oggi vuole rinchiudersi nel protezionismo, alza i dazi sulle importazioni e, così spinge i paesi concorrenti a fare altrettanto.
C’è un altro aspetto, un’altra contraddizione da non dimenticare. I manovratori della finanza con un click muovono capitali immensi e speculano, ma i capitali che essi muovono sono il frutto del lavoro di centinaia di milioni di risparmiatori, dei loro fondi pensione, dei loro mutui originari. Come si accenna ai mutui tornano alla mente la Lehman Brothers e il suo collasso. Mutui, prestiti, che hanno prodotto altri mutui e poi altri ancora finché la bolla prodotta da questa moltiplicazione di debiti insolvibili non ha fatto detonare la finanza mondiale. E’ successo e può succedere ancora perché non è cambiato niente nonostante il disastro del 2008. Colpire gli speculatori va bene ma come proteggere i risparmi è più importante. Tassare le rendite finanziarie è cosa buone e giusta ma come evitare che il solo ventilare in un paese questa minaccia induca i capitali ad emigrare in altri paesi alla velocità della luce?
Per uscire dalla crisi Obama e gli USA, dopo il 2008 - la BCE dopo il 2013 - hanno stampato moneta, prestato capitali e comprato debiti per salvare stati, banche e industrie. Le case automobilistiche americane si sono salvate così e hanno poi restituito i prestiti statali. Perciò noi abbiamo inneggiato alla cura espansiva di Obama e al QE di Draghi. Poi, mentre maledicevamo l’austerity tedesca ed elogiavamo l’America si è scoperto che quelle stesse case automobilistiche salvate con gli aiuti di stato stavano delocalizzando le loro linee produttive in Messico. Trump l’ha denunciato e ne ha fatto bersaglio del suo programma promettendo che bloccherà altre delocalizzazioni. Così ha conquistato la fiducia degli operai americani arrabbiati con i democratici e la loro globalizzazione. Se le sinistre di governo pensano e agiscono come le élites del potere non sorprende che gli operai e i farmers, ceti medi e persino minoranze etniche integrate votino Trump e la Brexit, Le Pen e Salvini.
Vediamo adesso cosa ne è stato della sinistra italiana nella fase della globalizzazione che coincide più o meno con la nascita e il consolidamento del sistema politico della cosiddetta seconda repubblica. In Italia cambiano i partiti non le repubbliche. Infatti, la Costituzione che ne definisce l’architettura resta immutata, al massimo cambiano le leggi elettorali, trattate come un bottino nella disponibilità dei vincitori di turno. E noi, con buona pace di presunte seconde e terze repubbliche continuiamo ad agitarci tra le macerie della prima.
Torniamo dunque alla sinistra italiana. Alla vigilia di questa seconda fase, inizio degli anni ’90, la parte comunista ha cambiato nome e si è scissa tra chi si aggrappava al passato e chi ha cercato di andare oltre i vecchi confini. Dal PCI al PDS, ai DS fino alla “ditta” di Bersani e allo stesso PD che merita un discorso a parte è stata tutta una mutazione. E non solo di nomi, basti pensare a come l’America abbia sostituito l’Unione Sovietica come riferimento ideale e politico senza che mai dirigenti e militanti politici ne abbiano discusso.
Quanto al PSI nel momento stesso della sua vittoria storica, il momento del crollo dei muri comunisti e del comunismo stesso, è stato massacrato da una devastante campagna giudiziaria e mediatica e dall’inizio degli anni ’90 si è diviso e disperso in una diaspora senza fine.
Dunque, al netto delle responsabilità politiche che sono tante – così tante e così gravi che nessuno può chiamarsene fuori – la sinistra storica all’apparire del terzo millennio semplicemente non c’è più. Non c’è più quel robusto conglomerato di culture politiche, partiti e sindacati, di storie, tradizioni, associazioni che pur duellando formavano e orientavano culturalmente e politicamente gran parte del popolo italiano.
Scomparsa la sinistra radicale attratta dalle sirene populiste la sinistra liberal democratica e riformista si è fatta amministrazione, governo, ceto politico.
La società italiana era profondamente cambiata ma all’appuntamento con la nuova epoca la sinistra storica non c’era più.
O, meglio, c’erano i suoi rappresentanti ma non i rappresentati cioè il suo popolo. All’inizio il centro-sinistra e l’Ulivo hanno cercato di sostituirla con qualcosa di nuovo, mescolando le antiche ragioni con un’innovazione politica troppo superficiale per non subire ma governare il cambiamento. Si pensi all’Ulivo: il fine era quello di costruire un nuovo soggetto politico, plurale ma unitario in cui i soci di maggioranza erano il PDS/DS e il Partito popolare poi Margherita. Non era un mistero che l’obiettivo finale fosse quello di unire quelle esperienze e quelle storie in unico partito. Ma la storia reale, non quella immaginata, si è messa di traverso. Alla fine si è visto che le cose per la sinistra andavano meglio quando c’erano in campo i DS e la Margherita. Non solo c’era una maggiore capacità di attrazione elettorale da due bacini elettorali diversi ma contigui e complementari. C’era più unità tra i due partiti disgiunti di quanta ce ne sarà dopo col partito unico. Buffa storia: quando c’era il maggioritario la sinistra era plurale e divisa, quando si è tornati al proporzionale ha creato il partito unico!
Forse la vera tragedia del PD è di esser nato tardi, nel 2008 anziché nell’89. Quell’89 di svolta storica in cui lanciai nel dibattito politico l’ideale partito democratico che avevo immaginato. La federazione laico socialista aveva ottenuto nell’87 il 25 per cento dei voti e avrebbe ben potuto accelerare la conversione di un PCI sull’orlo del collasso storico. Insieme avrebbero potuto dar vita a un altro, ben diverso PD, da quello germinato dall’incontro dossettiano tra comunisti e cattolici di sinistra.
Il PD – quello reale, non quello ideale – nacque dunque in ritardo e in coincidenza con quella devastante crisi del capitalismo che ne ha ipotecato lo sviluppo. Il 33 per cento, record elettorale del PD di Veltroni nel 2008, era già molto inferiore ai risultati delle coalizioni di Prodi e di Rutelli pur sconfitto nel 2001. Poi si è riusciti a fare anche peggio. Obbligato a sostenere il governo Monti e la sua impopolarissima politica di austerità nel 2013, con Bersani, il PD arretrò al 25 per cento e quest’anno è crollato al 18.
In mezzo c’è stata la grande illusione del giovane Renzi con il suo personale sturm und drang, che traduco criticamente come cocktail di fretta e rottamazione. Non ho citato la straordinaria affermazione delle europee del 2014 non per dimenticanza ma perché la considero frutto di circostanze particolari irripetibili. Aver creduto che fosse una base solida, una conquista stabile se non definitiva, è stato un abbaglio, un auto inganno causa non secondaria delle ripetute successive sconfitte. Quale illusione?
Quella di aver sconfitto il populismo allora monopolio del solo Beppe Grillo ma che già pareggiava per forza lo stesso PD. Illusione fatale quella di sconfiggerlo dal governo con un po’ di spesa pubblica ma senza contrapporgli un’identità popolare alternativa, un movimento e un progetto sociale capaci di promuovere innovazione e di garantire protezione.
A ben guardare si è trattato di una replica dei tempi dell’Ulivo che al di là dei risultati elettorali non seppe contrastare l’avanzata del berlusconismo, con le sue oscillazioni tra moderatismo e populismo. Non ci era riuscito Occhetto nel ’94 con la sua “gioiosa macchina da guerra” e aveva almeno la scusante di essere stato preso alla sprovvista. Ci riuscì per due volte Prodi ma in entrambi i casi fu presto travolto dalle divisioni della sua maggioranza multicolore. Invece fallirono D’Alema, Rutelli e Veltroni che in modi diversi hanno cercato di importare in Italia il modello della Terza Via di Anthony Giddens, di Bill Clinton, di Tony Blair, di Gerard Schroeder. Ma anche la terza via si rivelò un abbaglio. Il mondo anglosassone poteva tentare di conciliare il turbo capitalismo e la rivoluzione restauratrice della Lady di ferro e di Ronald Reagan con ideali progressisti. L’Italia invece era priva di quel presupposto, di quella lunga esperienza di animal spirits al potere e delle loro riforme liberiste. Dunque l’Italia non poteva proporsi di mitigare con la compassion – noi la chiameremmo solidarietà sociale – qualcosa che non c’era. Avrebbe dovuto tentare l’impossibile: fare la rivoluzione liberista e nello stesso tempo correggerla socialmente.
Come ho detto, l’allarme populista in Italia aveva suonato prima e più rumorosamente che altrove.
Noi un Trump, diverso, l’abbiamo avuto in anticipo di vent’anni. Penso all’esuberanza sfacciata, irridente ma vincente di quei manifesti con l’immagine di Berlusconi “presidente operaio” con tanto di casco da cantiere sulla testa. E Berlusconi le conquistò davvero le cittadelle operaie a Sesto San Giovanni e in tutto il triangolo industriale. Esattamente come è riuscito a fare Trump vent’anni dopo con i rednecks e con gli operai americani nella rustbelt delle ex capitali industriali.
Narrazioni e story telling dell’Ulivo e del PD renziano, la bulimia cambista in luogo della gradualità riformista non hanno compensato il deficit di critica e contestazione del lato distruttivo della globalizzazione e delle sue conseguenze sociali dentro la nostra società.
Poco alla volta la sinistra ha perso il suo popolo. Tanta gente di sinistra che se ne è andata altrove cercando da Salvini la sicurezza e da Di Maio l’assistenza.
Che la stessa cosa sia capitata più o meno in tutto l’occidente, che la crisi non riguardi solo la sinistra italiana ma la socialdemocrazia europea non è un’esimente e non rassicura. Aver sottovalutato o frainteso fenomeni sociali di proporzioni mondiali è segno di una cecità colpevole, gravida di guai.
Ricapitoliamo. Tutto ciò che la sinistra o meglio il socialismo italiano aveva creato tra otto e novecento, quel patrimonio che la sinistra del dopoguerra aveva ereditato e anche incrementato è stato perduto mano a mano che, generazione dopo generazione, molti dei suoi rappresentati per naturale evoluzione cessavano di far parte del suo popolo. Un’evoluzione parallela portava i suoi rappresentanti politici e amministrativi a identificarsi con i compiti di gestione e di amministrazione – locale e nazionale – della società così com’è. Come stupirsi che i gestori del capitalismo abbiano perso la rappresentanza di chi vive la parte bassa della storia? Senza il suo popolo la sinistra diventa ceto politico professionale separato, addirittura ignaro, della vita grama delle vittime del darwinismo sociale innescato dalla spietata e pur inevitabile competizione tra le economie nazionali per conservare o accrescere le loro quote del mercato mondiale.
Attratta dal vuoto lasciato dalla sinistra la destra si è fatta sociale, populista e buttata a riempire quel vuoto in difesa degli abitanti delle periferie “invase” dagli immigrati, dei pensionati delusi o maltrattati dalla legge Fornero, dei giovani disoccupati del sud, dei piccoli e medi imprenditori, artigiani, commercianti taglieggiati dal fisco e dall’odiosa burocrazia di Bruxelles.
Noi sappiamo che al netto di tutti gli errori compiuti la crisi degli ultimi anni è finita anche grazie al PD, e ai suoi governi che hanno spinto una ripresa economica peraltro ancora troppo debole. Ma intanto la divisione tra inclusi ed esclusi, tra sommersi e salvati aveva scavalcato e spiazzato la divisione tradizionale tra destra e sinistra. Aveva imposto un nuovo divide, quello tra popolo ed élites, tra chi è stato sopra e chi è stato sotto, tra chi come il PD veniva ormai identificato più col potere che con l’idea di sinistra.
Negli stessi anni l’universalismo dei diritti sociali – vessillo egualitario delle sinistre - è andato a sbattere contro le politiche di austerità imposte dal debito pubblico. In parallelo la sovranazionalità incarnata dall’Unione Europea e dalle sue politiche impopolari ha eccitato la rivolta sovranista delle singole nazioni. Di più, la montagna dei diritti, il “dirittismo” come lo ha chiamato Alessandro Barbano si è scisso tra i diritti sociali e quelli civili o individuali tipici di una società affluente. Senza risorse adeguate, senza poter più poter attingere al deficit spending, la sinistra ha assunto come bandiera proprio i diritti individuali a scapito di quelli sociali, i diritti delle minoranze a scapito di quelli della maggioranza.
Intanto erano emersi e si sono imposti nuovi, diversi diritti universali - si pensi all’ambiente – che non di rado confliggono per essere esauditi con il diritto al lavoro, sicché spesso accade che per tutelare gli uni si danneggia l’altro o vicevera. E il PD e i suoi elettori hanno introiettato e messo in scena anche questi conflitti.
Ora, a ognuno dei diritti in competizione corrispondono gruppi, aree sociali e generazioni diverse. Tutto ciò impone delle scelte e scegliere chi garantire vuol dire discriminare qualcun altro: questo diritto si quest’altro no, questo gruppo sociale sì quell’altro no.
La priorità accordata a questo o a quel diritto alla fine ha ridisegnato i confini del blocco sociale di riferimento perché se alcuni dei destinatari si avvicinano altri delusi si allontanano. Le scelte di governo hanno decretato inclusioni ed esclusioni. Ciò dipende dal fatto che i diritti non sempre si cumulano, un diritto può escluderne altri o può eroderli, consumarli.
Cito un esempio che mi è caro, il tema del merito e quello del bisogno. Riconoscere il merito significa riconoscere che alcune diseguaglianze sono giuste. Purtroppo accade che questo principio abbia consentito anche arbitri e abusi (tipo i compensi astronomici di manager e di banchieri). Senza il contrappeso di emancipare i bisogni, anzi, senza un’alleanza tra meriti e bisogni, si giostra tra opzioni a somma zero e si scivola nell’egoismo o nell’assistenzialismo.
Viene in mente il cosiddetto “effetto San Matteo” (versetto 25,29) coniato anni fa dal sociologo R.K. Merton: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. In altre parole, il vantaggio genera altro vantaggio e così agiscono anche gli handicap, gli svantaggi. Tirate le somme i ricchi saranno più ricchi i poveri sempre più poveri.
Il problema non è risolto. Come tenere insieme i diritti sociali conquistati nella lunga fase di espansione economica con la competitività necessaria per reggere le sfide economiche della globalizzazione?
La sinistra ha provato a cavalcare la fase suprema della modernizzazione: le innovazioni tecnologiche che riducono l’occupazione e la globalizzazione dei mercati, insomma la modernità. Ma la modernità è una tigre: se la cavalchi non puoi scendere se no la tigre ti sbrana. La decrescita non è mai felice come non lo sono le classi decadute, rottami su spiagge inquinate da altri. Lasciamo a Grillo i suoi incubi.
La sinistra non può alimentare fughe, visioni decadenti e si misura con altri problemi. Per esempio non può essere indifferente all’emersione delle masse povere del mondo un tempo escluso e non può più contare sul loro sfruttamento per garantire il benessere della propria gente. Ma non può nemmeno imporre al proprio popolo un’accoglienza senza limiti delle masse diseredate di immigrati in fuga dalle regioni della fame, delle malattie, della miseria, delle guerre.
Ci vorrebbero più Europa e un’Europa solidale che si facesse carico collegialmente e proporzionalmente dell’accoglienza. Ma con l’eccezione di Germania e Svezia l’Europa da quest’orecchio non ci sente e non ci vuole sentire.
L’immigrazione è il paradigma delle difficoltà della sinistra, anzi, è la sua croce. La sinistra non può rinunciare ai suoi ideali di internazionalismo e al suo cosmopolitismo, e sa che la solidarietà di oggi è promessa e pegno di un futuro di pace. Non può ignorare le sofferenze e le speranze dei dannati della terra ma nemmeno può alzare le spalle di fronte all’ansia, alla paura, all’insicurezza dei concittadini che già vivono ai limiti e si sentono minacciati da un’immigrazione senza controllo e senza disciplina dell’integrazione.
Ripercorriamo in breve l’esperienza di politiche migratorie di questi ultimi anni. All’inizio fu “Mare nostrum”. Con quel po’ po’ di evocazione dell’impero di Roma sul Mediterraneo, il timido Enrico Letta battezzò i nostri salvataggi in mare. L’anno dopo, nel 2014, Renzi lo scalzò, ma non cambiò rotta, anzi, estese le nostre responsabilità pretendendo e ottenendo che il coordinamento di tutte le operazioni navali di salvataggio nel Mediterraneo centrale fosse stabilito a Roma e offrendo l’Italia e i suoi porti come garante finale. Così i nostri porti del sud divennero il terminale di tutte le navi - italiane e straniere, mercantili o umanitarie – impegnate a raccogliere i migranti dai gommoni degli scafisti. (Tra parentesi così si spiega anche perché Malta, non senza pezze d’appoggio, da allora ci scarica ogni responsabilità). Si calcola che negli ultimi cinque anni l’Italia abbia accolto più di mezzo milione di migranti. Accolti, riferito alle condizioni dei nostri centri, è, un eufemismo. A perfezionare il capolavoro politico pensò Alfano, ministro degli interni, inetto a integrare i nuovi venuti si è mostrato prodigo di accoglienza senza limiti e senza giudizio. Migranti clandestini o richiedenti asilo Alfano accoglieva tutti senza sapere chi fossero, senza nemmeno prendere le impronte. Tanto lo scopo non era identificarli e stabilire chi avesse titolo a restare e chi no, ma istradarli là dove volevano andare, cioè verso i paesi del nord Europa. Naturalmente Francia, Svizzera, Austria – nostri confinanti - non tardarono a mangiare la foglia delle nostre furbizie. Così sospesero Schengen e la libera circolazione, reintrodussero i controlli alle frontiere con l’Italia e tuttora ci restituiscono i migranti che le hanno varcate. Lo stesso è costretto a fare il “bravo soldato Merkel” strattonato dal suo ministro degli interni e dal capo della CSU tedesca.
Finalmente, nel 2017, con Gentiloni premier, è arrivato un ministro degli interni, Marco Minniti, al quale l’Italia dovrebbe erigere un monumento, ma che la sinistra-sinistra e parte del suo PD ancora accusano di aver fatto da battistrada a Salvini. All’inizio del suo mandato Minniti, come ora sta facendo Salvini, pensò di tamponare l’esodo senza fine cercando di dirottare dall’Italia le navi delle ONG straniere sospette di intese con i trafficanti. Poi elaborò un codice per le ONG e tento di sciogliere i nodi più intricati: la Libia, l’Africa e gli scafisti. Stringendo accordi con Tripoli, Tobruk, con le milizie cittadine e finanche con i capi tribù del sud libico da cui transitano le masse africane, in un anno Minniti ha ridotto dell’80 per cento il traffico di esseri umani verso l’Italia.
In sostanza Minniti ha bloccato l’emergenza migranti agendo sul principio del problema – gli imbarchi – anziché sulla coda – gli sbarchi. Salvini ha riconosciuto i meriti di Minniti e sa che la vera emergenza è finita. Ma, allora, vi domanderete, perché ricomincia dalla coda cioè dai respingimenti in mare? Perché fare il forte coi deboli non costa nulla, e, per la mentalità nazionalpopulista respingere una nave straniera carica di profughi è cosa buona e giusta. E se anche suscita l’indignazione internazionale – sincera o ipocrita che sia – tanto meglio, il popolo applaudirà il ministro che batte i pugni sul tavolo con gli stranieri. Che siano migranti o governanti .
E’ vero che personne ne repasse par sa jeunesse (“nessuno ripassa dalla sua giovinezza”) ma la canzone che parla della nostra malinconia non significa che il mondo di ieri fosse migliore di quello attuale. Alle consolazioni della nostalgia preferisco un’altra declinazione del passato. Questa: che anche il passato o forse soprattutto il passato ci aiuta ad affrontare le sfide del futuro. Perché il passato ci consente di distinguere l’ignoto dal già visto, dunque di prendere le misure delle novità, brutte o belle che siano. Il passato educa al confronto e rimette l’esperienza al posto che le spetta, non troppo in alto ma nemmeno all’ultimo banco.
Per Steve Bannon l’ex stratega di Trump l’Italia è diventata il laboratorio del nazionalpopulismo mondiale. Che non abbia indicato, come sarebbe stato logico, l’America di Trump dipende dal fatto che il suo capo, nel frattempo, l’aveva licenziato, fired!, come the Donald urlava ai giovani apprendisti per cacciarli dal suo reality televisivo. Dunque, essere insignoriti da un tipo come Bannon più che un vanto sembra un malaugurio.
Il populismo italiano non è un laboratorio, è un frullatore. Sì, il sapore più forte, per ora, è quello di un nazionalismo becero e imitativo, maramaldo con i deboli, i disperati, le minoranze, gli immigrati e i rom. Salvini comanda perché ha poche idee sbagliate ma chiare, idee che funzionano da aspirapolveri di paure diffuse. Comanda perché parla a nome dell’alleanza di centro destra che lo fa più forte, quell’alleanza che pure ha disarticolato e che continuerà a divorare finché glielo lasceranno fare. Salvini ha in uggia la sovranazionalità europea, eppure, senza di essa andremmo alla deriva nella globalizzazione. Sprezzante con Francia e Germania è cortigiano con i potenti della terra come Putin e Trump, che lo osservano per capire se sarà un buon grimaldello per scardinare l’Unione Europea. Persino così com’è ridotta oggi l’UE resta un boccone troppo grosso per i loro denti. A Trump e Putin gusta di più un’Europa spezzatino. Potrebbero trattare separatamente con ciascuno dei suoi stati membri: grandi pacche sulle spalle e grandi fregature dietro.
“Democrazia diretta, reddito di cittadinanza” … cosa vogliano davvero i 5 Stelle non lo sanno nemmeno i loro capi figuriamoci i loro elettori e noi che più che diffidenti siamo avversari pieni di pregiudizi. Tantomeno si sa cosa uscirà dal frullatore dell’alleanza gialloverde. Rovineranno l’Italia applicando il loro contratto o perderanno la faccia tradendolo?
Le sole cose da non fare sono sedersi a guardare masticando pop corn o aggiungere confusione alla confusione immettendo altri ingredienti nel frullatore. Il PD ha problemi molto seri, di valori, di struttura e di leadership, eppure è l’unica opposizione e questa è una responsabilità enorme ma anche un’enorme risorsa per chi deve rigenerarsi per salvare l’Italia. Deve fare un congresso vero, anzi, deve diventare un congresso permanente. Il partito del congresso dei liberali e dei democratici di sinistra, di centro e se mai si manifestasse anche di una destra europeista e moderata. L’alternativa maggioritaria al nazionalpopulismo nascerà da qui, da una lotta che non sarà breve e da coloro che vi parteciperanno. Nascerà riunendo in qualcosa di nuovo, in una prospettiva d’avvenire, altre élites diverse da quelle di sempre e un altro popolo, diverso da quello della rabbia e della paura. Nascerà da un’opposizione acuminata e popolare, intelligente e con gli artigli.
L'editoriale del direttore