John Maynard Keynes (elaborazione grafica Il Foglio)

Botte al governo che blatera di Keynes e lo tradisce. Parla Ciocca

Stefano Cingolani

Così i “movimenti di reazione demagogica” hanno scavato buche vuote creando distanze siderali con gli investitori

Roma. “Passare da un rigore di bilancio alla Hayek a un rigore di bilancio alla Keynes”: la formula è piaciuta a Giuseppe Conte che l’ha usata per spiegare e giustificare la legge sotto la quale ha messo la firma. John Maynard Keynes, così, viene eletto nume tutelare dello spendi e spandi, ma questo a Pierluigi Ciocca (foto sotto) non va proprio giù. E’ stato lui a coniare quella definizione in un intervento sul Sole 24 Ore e nel suo ultimo libro, “Tornare alla crescita” fresco di stampa per i tipi di Donzelli, spiega che cosa significa: “Contrariamente a quanto pensa chi non l’ha letto o capito, Keynes aborriva lo scavar buche, i disavanzi di bilancio, il debito pubblico. Proponeva cospicui investimenti pubblici produttivi nel tendenziale pareggio del bilancio”.

 

 

 

Nella politica economica voluta da quelli che Ciocca chiama “movimenti di reazione demagogica”, ci sono le buche in versione reddito di cittadinanza, c’è la spesa corrente per le pensioni, mancano gli investimenti produttivi nonostante il gran parlare che se ne fa. Non è dunque questo il deficit spending al quale faceva riferimento l’economista liberale inglese. Può darsi che il governo ci stia in parte ripensando per sfuggire alle sanzioni europee, ma dovrebbe riscrivere l’intera manovra. Il problema non è nemmeno il disavanzo al 2,4 per cento, ma piuttosto il fatto che il governo gialloverde non rispetta il pareggio del bilancio pubblico. Il vero campanello d’allarme scatta quando i titoli non riescono più ad essere collocati. “Quello è il punto di non ritorno”. E con il Btp Italia ci siamo andati vicino.

 

Di luoghi comuni, Ciocca, una vita in Banca d’Italia, economista con vocazione per la storia, ne sfata parecchi nel suo volume che raccoglie alcuni saggi già pubblicati e lezioni tenute in aule accademiche, con alcuni capitoli nuovi, non solo quello finale intitolato “La via d’uscita”. C’è anche un pizzico di ricordi personali, perché nel 1996 toccò a lui per conto della Banca d’Italia e a Mario Draghi per il Tesoro trattare il rientro nel sistema monetario europeo un livello di 990 lire, vicino alle mille lire indicate da Romano Prodi. La lira, uscita con il crac del 1992, tornò più debole, incorporando le due ultime svalutazioni, al contrario di quel che sostengono gli euroscettici. Ciò non ha affatto aiutato la crescita, anzi ha scoraggiato gli investimenti e la produttività che resta l’alfa e l’omega della crisi italiana. L’idea di recuperare sovranità monetaria per svalutare e aumentare la competitività non sta in piedi sul piano teorico e non ha fondamento su quello storico, come puntualizza Ciocca al Foglio. “L’euro è una buona moneta, la solitudine fuori dall’euro e dall’Unione sarebbe disastrosa”. Verrebbe distrutto non solo il risparmio, ma il patrimonio delle famiglie che finora ha tenuto a galla il paese, senza ottenere alcun vantaggio dal lato delle esportazioni come invece proclamano leghisti e pentastellati. Dunque, niente scorciatoie: né svalutazione né imposta patrimoniale.

 

“Ormai abbiamo superato ogni limite, in Italia è in gioco la vita
non la teoria economica”, dice il decano di Banca d’Italia. “Tornare
alla crescita è possibile, dipende dalla volontà politica dei governi,
e se la società civile si convincerà che esistono soluzioni razionali
non traumatiche ai problemi dell’economia”

 

L’euro non ha avvantaggiato la Germania, semmai il contrario: “L’economia tedesca poteva crescere in media del 2,5 per cento non dell’1,4 come è avvenuto, con una politica economica diversa”. Perché non l’ha fatto? Una spiegazione è interna: i governi hanno scelto i risparmiatori rispetto ai produttori, hanno tenuto i salari bassi, ma attirato capitali dall’estero, persino troppi. La seconda spiegazione è di politica estera. “La Germania debitrice è sempre stata un nano politico, una Germania creditrice (e siamo ormai a duemila miliardi di dollari) è forte e rispettata”. Ma questo ha approfondito gli squilibri nella zona euro.

 

Qui Ciocca è d’accordo con Savona e lo è anche sulla riforma della Bce. “Noi della Banca d’Italia siamo stati sconfitti – ricorda– volevamo il doppio mandato come la Federal Reserve (cioè inflazione e disoccupazione ndr), una vigilanza attiva sul sistema bancario e la possibilità di sostenere uno stato membro che, pur avendo le finanze pubbliche a posto, non riuscisse a collocare i titoli sul mercato. Invece ha vinto il modello tedesco”. Adesso, però, si chiede alla Bce di finanziare paesi come l’Italia che non hanno il bilancio in equilibrio. “Questo non è rigore keynesiano”, sorride Ciocca e insiste: il debito pubblico è destabilizzante e il pareggio del bilancio resta fondamentale per liberare risorse da destinare agli investimenti pubblici a cominciare dalle infrastrutture. “Ormai abbiamo superato ogni limite, in Italia è in gioco la vita non la teoria economica”. Ma perché siamo arrivati a questo punto? Perché tagliare gli investimenti è meno costoso in termini di voti che tagliare la spesa. Eppure margini ci sono: 250 miliardi di spese varie (da distribuzioni assistenziali a pioggia ad acquisti di beni e servizi) più 150 miliardi di evasione fiscale, portano a 400 miliardi di euro annui il costo di quello che potremmo chiamare un patto clientelare. “Il principale errore compiuto dai governi Letta, Renzi e Gentiloni - sostiene Ciocca- è consistito nell’usare le scarse risorse disponibili per trasferimenti alle famiglie, sussidi e sgravi fiscali alle imprese anziché a investimenti in valide infrastrutture”. E il governo attuale fa lo stesso su scala ancora maggiore.

 

Ma la crisi italiana è così complicata anche per colpa del fattore capitale. “Le imprese mi hanno deluso – dice Ciocca– hanno utilizzato la svalutazione della lira negli anni ’90 e i trasferimenti pubblici per aumentare i loro profitti non per innovare, per crescere, per rafforzarsi”. Il nanismo industriale deprime la produttività: sia le piccole aziende sia le grandi (quelle poche rimaste) perdono terreno rispetto alle concorrenti estere, al contrario delle medie imprese. Ciò vuol dire che la ristrutturazione deve compiere ancora molti passi avanti. Fondamentale è la frusta della concorrenza, ma anche una moneta solida. La lira debole ha minato il sistema industriale italiano, al contrario di quel che sostengono Salvini, Di Maio e i loro pifferai magici i quali sognano di tornare all’illusione monetaria generata dalla svalutazione e dal debito pubblico.

 

Dopo le elezioni si era parlato di Ciocca come ministro dellEconomia, una voce presto smentita anche dal diretto interessato. La sua ricetta, del resto, sarebbe stata indigeribile per i gialloverdi: lo è il pareggio del bilancio, ma anche gli investimenti produttivi invece dei trasferimenti assistenziali. Tornare alla crescita dipende soprattutto dalla volontà politica dei governi e dei soggetti fondamentali dell’economia (a cominciare dagli imprenditori). Una crescita di lungo periodo che potrebbe arrivare al 2,5 per cento l’anno con 1,5 milioni di disoccupati in meno rispetto agli attuali 2,8 milioni, “se la società civile si convincerà che il problema economico costituisce il nodo da recidere e che esistono soluzioni razionali non traumatiche”. Vasto programma con un grande se.