La logica tremenda ed efficace del piano immigrazione zero

Giuliano Ferrara

Prova di forza: respingerli. Salvini può prendersi la delega della svolta giocando con un’opinione fanatizzata dalla paura

Alzi la mano chi, anche tra le persone assennate e umanamente non primitive, non ha mai pensato che i respingimenti in mare dei barconi di immigrati sono, per quanto ingiusti, spietati, contrari all’etica sacra della navigazione, negazione del presupposto omerico e cristiano dell’accoglienza, possibili ed efficaci? Per un paese che con il suo primo governo populista in Europa stabilisce un ponte con Orban e con Putin, per non parlare del trumpismo murario sottopelle, la questione della difesa serrata delle frontiere, che sono marittime, rischia di essere messa all’ordine del giorno secondo il criterio tolleranza zero, immigrazione irregolare zero. La logica nella sua brutalità è ovvia: si pagheranno inizialmente dei costi anche alti, ma se non possono arrivare, approdare, varcare le acque territoriali, gli immigrati portati dagli scafisti non partono più, semplice semplice, e d’altra parte costi mostruosi sono già stati pagati con un’ecatombe per acqua negli anni delle frontiere sostanzialmente aperte e del soccorso (e misurando costo con costo, se non partono non annegano). Certo, in mare non si elevano steccati, muri, fili spinati come alla frontiera ungherese, la dissuasione non è affare per doganieri, occorre una forza militare navale, un controllo a rete arduo e pericoloso per l’incolumità dei profughi o immigrati, in mare non si distingue, non ci sono timbri, hotspot, centri di detenzione, identificazione ed espulsione che galleggiano. In mare è più complicato. E’ vero che il governo socialista di Zapatero sparava e uccideva quando era in causa la sorte delle enclave di Ceuta e Melilla in territorio marocchino, ma salvo episodi e casi estremi non è detto che solo una meccanica nuda e cruda di stragi e affondamenti possa salvaguardare le frontiere marittime dell’Italia. La prova di forza, illegale secondo le convenzioni internazionali, comporta rischi etici tragici, ai limiti della criminalità penale internazionale, ma può essere dispiegata con notevole impatto simbolico e politico in un’opinione fanatizzata dalla paura, da un governo che sembra nato apposta per accantonare scrupoli umanitari, e far finire la “pacchia”. Gli americani, paese e popolo di immigrati, hanno eletto alla Casa Bianca un candidato che definiva senza tentennamenti “stupratori” i clandestini venuti dal Messico, e tra gli applausi della sua base che continuano ora che accusa il santuario californiano di essere un ricettacolo liberal per “bestie”, per “animali” venuti da terre shithole, paesi di merda. Qui si oscilla, un giorno la pacchia è finita, anzi strafinita, e si sente l’urgenza tutta trumpesca di fornire la merce al popolo, il giorno dopo fioccano blandizie verso la chiesa cattolica e riconoscimenti alle politiche sagge del ministro Minniti. Eppure il vero linguaggio delle nuove autorità elette a furor di popolo si esprime nel prolungato silenzio sulla fucilazione di Soumayla Sacko a San Calogero, e poi nel commosso pensiero del Senato, farsesca copertura di un indifferente imbarazzo. Qui si oscilla, ma se riprendessero gli sbarchi, se la rete di Minniti si sfrangiasse, se il contrasto ai flussi nel Mediterraneo si rivelasse oneroso, lungo, inefficace, che accadrebbe?

 

Ieri Matteo Marchesini ricordava, recensendone la biografia qui, che negli anni Trenta del Novecento Nicola Chiaromonte, intellettuale di magnifica stoffa, come Simone Weil “ragionò sull’incapacità moderna di sottoporre a un ‘limite’ i comportamenti e di esaminare eticamente la ‘forza’, ma questo richiamo antitotalitario d’antan non è il solo fomite di allarme. Michael Ignatieff è allievo e biografo di Isaiah Berlin, il grande liberale canonico del secolo scorso, e questo rampollo di Cambridge, Oxford, London School e Harvard in un’intervista stranamente passata sotto silenzio ad Antonello Guerrera disse alcuni mesi fa che non c’è contrasto possibile al populismo in Europa, salvo uno: “Chiudere le frontiere”. Su questa base ci siamo giocati la Brexit, Trump presidente, la Merkel indebolita dalle frontiere aperte del 2015 che aspetta le elezioni difficili in Baviera in compagnia di cento parlamentari della AfD, e l’Europa dell’est sta nello stato che sappiamo, ultima la Slovenia, e perfino Macron, che ha un potere gaulliano nelle mani e sembra l’ultima trincea della società aperta, prima delle politiche di integrazione ha varato la sua linea legislativa di chiusura agli ingressi irregolari e non programmati, se ne sa qualcosa alla frontiera italo-francese tra la Costa Azzurra e le Alpi. Non c’è più una politica dell’immigrazione comune in Europa, e in verità non c’è mai stata davvero, ma anche simbolicamente ecco che la revisione del trattato di Dublino, che vieta gli espatri redistributivi dal paese di arrivo delle ondate migratorie, pena la fine di Schengen ovvero della libera circolazione, fallisce, ecco che l’Austria si chiude in guanti bianchi, perché può farlo, ecco che in Belgio un segretario di stato estremista addetto all’immigrazione suggerisce, qui e ora, subito, di superare le convenzioni europee e di autorizzare i respingimenti in mare, mentre tutti ormai dicono che l’Italia è stata lasciata sola colpevolmente, ma nulla si fa per correggere lo stato delle cose. Affiora anche un sospetto: il governo populista sarà una minaccia per euro e mercati finanziari, ma con l’aria che tira il fatto che si prenda la delega della svolta, creando una forza di dissuasione navale capace di invertire la rotta degli scafisti con la forza potrebbe essere visto con ambigua indifferenza, e con molte approvazioni, nel panorama politico europeo. Ci penseranno le ong a salvare la faccia in qualche modo.

 

C’è chi dice che in caso di emergenza estiva il ministro dell’Interno del governo gialloverde proseguirà sulla linea di Minniti, una politica di riduzione e rimpatrio misurata, contrattata con i paesi d’origine, che una sua efficacia relativa l’ha avuta, ma non certo un trionfo simbolico visto che Minniti è arrivato terzo nel collegio di Pesaro contro un grillino che ha vinto pur non facendo campagna elettorale perché variamente sputtanato perfino in casa sua. C’è chi dice che quello stesso ministro dell’Interno, che parla una lingua di cancelleria e una lingua da comizio molto esplicita, contemporaneamente essendo capopopolo in ascesa e titolare della sicurezza nazionale, alla tentazione, sempre in caso di emergenza, di provocare una clamorosa rottura dello status quo con una strategia di respingimenti in mare non resisterebbe. Io sono tra questi, e spero di sbagliarmi, anche se dire che so cosa sperare ormai è una vanteria futile e velleitaria.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.