Per Salvini la pacchia è finita

Valerio Valentini

Rispedire tutti a casa, ma come? Cosa può fare il ministro dell’Interno per non essere ostaggio della sua propaganda e resistere alla prova dei talk-show. Indagine sull’altro vincolo esterno del governo populista

E così le mani che fino a qualche giorno fa, nella trance agonistica da campagna elettorale permanente, voleva “libere” in tema di sicurezza e immigrazione, quelle stesse mani ora Matteo Salvini le mette avanti, per ribadire che lui “non è Superman”, e che del resto non è di supereroi che si abbisogna al Viminale, ma di una persona di polso e di buon senso, che sappia ponderare con prudenza parole e decisioni. Ecco allora che “non arrivo al ministero dell’Interno con la clava a cambiare a tutto”, dice ora Salvini, “ma arrivo in punta di piedi per studiare, per ascoltare, per capire”. Proseguire il lavoro che è già stato intrapreso, ché del resto quello di Marco Minniti è stato “discreto”, anziché “smontarlo”. E forse sarà come dice Giovanni Toti, cioè che anche il ruspante leader del Carroccio, tutto ansioso di irrompere nella stanza dei bottoni, “quando finalmente ci è entrato si è accorto che non sono quelli che si aspettava”, per cui meglio andarci cauti, con le dichiarazioni d’intenti mirabolanti. E però, a ben vedere, per Salvini ridimensionare i suoi propositi bellicosi, su accoglienza e respingimenti, potrebbe essere rischioso, visto che, dopo l’inevitabile addolcimento della retorica antieuro, le aspettative palingenetiche dei milioni di italiani che gli hanno chiesto una rottura netta, col passato recente, si sono riversate proprio sulla sicurezza. E’ per questo che, dei 500 mila irregolari di cui si parla nel “contratto di governo” grilloleghista, il segretario del Carroccio vorrebbe rimpatriarne molti, magari tutti, e in breve tempo. Cosa che, però, semplicemente non è possibile. E non solo per quei 5 o 6 mila euro che costa, in media, ciascun “clandestino da rimandare a casa”. Il problema è soprattutto burocratico.

 

Gli irregolari vanno accompagnati nei loro paesi d’origine, e non in quelli di provenienza: ciò significa che, ad ogni barcone stracolmo di disperati che arriva dalla Libia, bisogna vagliare la nazionalità di centinaia di persone. Senza contare che, da quando la politica di Minniti ha limitato le partenze dai porti delle coste a ovest di Tripoli, gommoni pieni di bengalesi, maliani, sudanesi, salpano sempre più spesso pure dalla Tunisia. E insomma identificare è procedura complessa, che richiede fatica e soprattutto tempo. E, dunque, centri di identificazione (e di espulsione): i famigerati Cie, dove potere trattenere i nuovi arrivati finché tutte le operazioni necessarie ad appurare la loro nazionalità non siano completate. Diciotto mesi è il limite posto da Lega e M5s: e appare un tempo ragionevole, certo, purché però si costruiscano nuovi centri: altrimenti controllare mezzo milione di persone resta un’utopia. “Almeno uno in ogni regione”, si stabilisce nel programma gialloverde, ma solo “previo accordo con la regione medesima”.

 

E qui sta il problema: specie nel nord Italia a trazione leghista, là dove sarebbe più facile costruire nuove strutture ricettive ma dove qualsiasi nuovo insediamento viene visto come un attentato alla sicurezza pubblica.

 

Nel maggio del 2016, per dire, fu proprio il Carroccio bresciano a sollevarsi contro la costruzione di un centro di accoglienza in una ex caserma di Montichiari. Perciò Salvini rischia di restare vittima della sua stessa propaganda, ora: se per anni ripeti in ogni tua comparsata televisiva che dovunque ci sia una struttura che ospita immigrati c’è una ragazza che rischia lo stupro o una vecchina che prima o poi verrà scippata, poi è facile che sia la tua stessa gente a opporsi all’idea di nuovi Cie. Un’altra soluzione, in teoria, sarebbe quella dei respingimenti in mare, di cui pure hanno parlato i leghisti in questa campagna elettorale: in pratica, però, è impossibile. E non solo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo li ha, ormai sei anni fa, dichiarati illegittimi, ma anche perché, senza alcuna istituzione affidabile in Libia, effettuare i trasbordi in acque internazionali e le relative riconsegne immediate appare infattibile. E dunque ecco riemergere, forte come non mai, la suggestione delle prove di forza, tentazione cui il decisionismo di Salvini ha già dimostrato di essere incline. Tra i parlamentari leghisti di peso c’è già, infatti, chi vagheggia “una strategia Savona” anche sull’immigrazione: si tratterebbe, cioè, di paventare soluzioni drastiche, comprese quelle militari, come arma di ricatto per convincere gli stati nordafricani a limitare al massimo le partenze, e per indurre l’Unione europea al rispetto dei patti di redistribuzione. E però non funziona neanche questo. Un po’ perché la minaccia di bombardare le imbarcazioni nei porti stranieri non può certo essere rivolta a paesi con cui l’Europa ha solide relazioni diplomatiche (ed è bastato che Salvini facesse la voce grossa con la Tunisia, parlando di un paese “che esporta galeotti”, per far passare un brutto quarto d’ora al nostro ambasciatore a Tunisi). Un po’ perché, rispetto agli altri paesi membri dell’Unione, l’Italia è in una condizione di irrimediabile inferiorità. A loro basta infatti sospendere il trattato di Schengen, o anche solo prospettare di farlo, per dimostrare a Salvini che esibire i muscoli, su questo tema, può essere non solo infruttuoso, ma anche controproducente. Insomma, al di là degli annunci da campagna elettorale, e del recupero di ricette già pensate, con varia fortuna, da Minniti e Maroni, al nuovo ministro dell’Interno non resterà che la via degli accordi bilaterali coi paesi subsahariani (sempre più costosi, dacché quegli stati sono consapevoli, ormai, di potere alzare il prezzo della loro collaborazione) o quella – già discussa più volte, in passato – del coinvolgimento dell’Onu nella costruzione di campi profughi in Libia. Verrebbero gestiti dai Caschi blu, servirebbero a vagliare in loco la validità delle richieste d’asilo, e prevederebbero poi la creazione di corridoi umanitari riservati ai soli “regolari”. Ma richiederebbero tempi lunghi e un lavoro paziente di diplomazia che non sono esattamente compatibili con la retorica battagliera e millenaristica di chi urla che “la pacchia è finita”. Sempre che, non potendo cambiare la realtà, alla fine Salvini non si rassegni, e alla svelta, a cambiare i suoi toni.

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