Una manifestazione a San Calogero dopo la morte di Soumayla Sacko. Foto LaPresse

Calabria infelix

Simonetta Sciandivasci

L’omicidio di Soumayla, le imposture letterarie: ecco il sud che non cambia mai. E poi c’è il sud nel cuore, nel romanzo di Sonia Serazzi

Chi vive in Calabria. A San Calogero, nel vibonese, hanno ammazzato Soumayla Sacko, maliano, ventinove anni, figli, moglie, un lavoro, tutto in regola. Col fucile, praticamente per strada. Indagato per l’omicidio è un agricoltore: 43 anni, qualche precedente poco rilevante per poco rilevanti litigi. “Eccolo qui il sud dell’Italia 2018 così orribilmente simile a quello dell’Italia 1948”, ha scritto Flavia Perina. E ha ricordato che Mimmo Cangemi, in Attenti al sud, ha definito la popolazione calabrese “una maggioranza in libertà condizionata, libera finché non progredisce in un benessere che accende gli appetiti”.

   

“Vengo dalle grotte calabresi, da ragazzo non sapevo neppure cosa fosse un cinema, a casa mia pioveva sulle lamiere”, ha detto Marcello Fonte a Cannes, a maggio, quando ha vinto il premio per la miglior interpretazione maschile per Dogman di Matteo Garrone. Il Corriere della Sera ha titolato “Dalle baracche al trionfo”. Chi vive in baracca.

  

Non c’è nessun ministro calabrese nel governo Conte, qualche testata locale se n’è risentita, perché invece ci sono i pugliesi e ci sono i campani (non ci sono neanche lucani, in verità, ma la Lucania ha Matera con “i Sassi che non sopportano il Cristo”, figuriamoci un ministro). Salvini, comunque, ha detto che il suo predecessore all’Interno, Marco Minniti (reggino) ha fatto un discreto lavoro che lui non intende “smontare”. Chi odia i terroni.

  

Ma il cielo è sempre più blu. O no? E chi lo sa. Ci voltiamo parecchio, in questi giorni, non verso l’alto ma verso il basso, diretti a quel sud impervio, inguaiato, irredimibile, di Cetto Laqualunque e liquirizia e sgraziati e disgraziati e caporali e mafiosi e vattienti (i flagellanti che si feriscono con pezzi di vetro durante la processione del Venerdì santo) e inflessibili turbolenti seriosi tanto che pure il loro santo patrono, san Francesco da Paola è u zirrusu, l’iroso. Finita la ricognizione, tremenda ma rassicurante, ci rivoltiamo dall’altra parte: tanto non cambieranno mai, quelli là, questi qua. Che Soumayla Sacko, in quel modo, non avrebbero potuto che ammazzarlo in un paese della Calabria saremmo forse pronti a giurarlo.

  

Ci voltiamo verso quel sud impervio, inguaiato, irredimibile, di Cetto Laqualunque e liquirizia e sgraziati e disgraziati e caporali 

“In quel preciso momento, sentii d’amare il sud perché ti lascia campare senza chiederti nulla”: lo fa pensare Sonia Serazzi a Rosa Sirace, la protagonista del suo ultimo romanzo, che si chiama Il cielo comincia dal basso (al blu ci penseremo poi o mai più) ed è uscito da poco per Rubbettino (preziosa casa editrice di Soveria Manelli, in provincia di Catanzaro). Il preciso momento è questo qui: Rosa è appena scesa dal treno, le è tornata in mente quella volta che, tornando a casa dopo essersi laureata, da Perugia, una signora, dopo averla fissata per ore, le aveva detto che aveva il maglione al rovescio e lei aveva risposto che si usava così, allora quella le aveva domandato dove sarebbe scesa, lei aveva detto “a Lamezia Terme”, ottenendo un “giratevi la maglia, signorina, che a Lamezia Terme la moda non la capiscono”. Come Carmen Consoli, che in A finestra, non manda al diavolo il vecchio dirimpettaio che le dice di levarsi dal davanzale e andare a lavorare e lo fa perché lui glielo ha detto in siciliano catanese, Rosa si era levata il maglione, per girarlo, e le cuciture erano andate a posto “e io al mio: quando ci si rassegna alla verità, si riconosce immediatamente il proprio posto, e non se ne pretende uno diverso, perché l’angolino che ci spetta è tutto il paradiso di cui siamo capaci sulla terra. In cielo magari le cose cambiano”. Con questa scena in mente, Rosa incontra suo padre che è andato a prenderla in stazione, dove “le facce sono il vero arrivo” e sente un venditore ambulante che urla “nell’orto del Signore devono campare tutti!”, mentre porge un cesto di frutta a una signora.

   

Rosa Sirace impara a fiorire nel posto che ha: è scritto sull’aletta del libro ed è l’altra metà della mela, il pezzo non compreso tra quei “pezzi di sud rimasti uguali a se stessi, indifferenti al cambiamento epocale delle società, alle regole, a tutto ciò che è diritto costituito e difficilmente aggirabile” di cui parla Perina e che, forse, li frantumerebbe, se solo ci accorgessimo che esiste. L’altro sud che sfugge a tutti e che non è neppure quello virtuoso, impiegato ora più che mai nella retorica del riscatto (epico topos che, con alterne fortune e intensità, dai comizi di Colombo in poi – ci credereste? – ai cittadini del giù italiano si serve pure col caffè); quel sud efficiente, un po’ svizzero, un po’ californiano, che vuole stabilirsi come organicità e non come anomalia, quello delle eccellenze, per intenderci, su cui, legittimamente, giustamente, ci si occupa, ciclicamente, in un articolo, in un servizio sulla televisione del mattino, in meritevoli libri e sempre con lo stesso tono “non lo direste mai, e invece”. La Calabria di Rosa Sirace è un inedito assoluto, un così com’è senza perché, la “Calabria che è nel cuore di ogni uomo”, decenni dopo che Carlo Levi, nella sua introduzione postuma a Cristo si è fermato a Eboli aveva parlato di “Lucania che è nel cuore di ogni uomo”. E’ un inedito anche, soprattutto, la scrittura di Sonia Serazzi, incredibile per tante ragioni, la più importante delle quali è che, sebbene a ogni riga si senta che lei scrive così perché è nata in un certo posto, dove si vedono cose precise (poche, sempre le stesse), non si spera ma si crede, non si analizza ma si contempla, incredibilmente, la voce che racconta non appartiene a un luogo, ma all’umano, alla vita, appunto a ciò che è nel cuore di ogni uomo. Un posto immutabile perché compiuto, ma pure perché – ammettiamolo – fieramente sornione, come il paese de I Basilischi di Lina Wertmuller (la voce narrante dice, all’inizio: “Prendiamo un giorno qualunque, forse dell’anno prossimo, forse dell’anno scorso: tanto, qua, è lo stesso”).

   

La Basilicata di Giuseppe Catozzella riesce a essere perfino più insopportabile, finta e inesistente di quella del film di Rocco Papaleo 

“Io non appartengo alla vita e neppure al genere umano. Io appartengo solo al mio paese” (suona un po’ leghista, ma è solo per via di questi tempacci), ha scritto Franco Arminio, che è un poeta piuttosto in voga e parecchio produttivo, tanto che dopo molto peregrinare e predicare di paesologia, ha consolidato un festival tra i calanchi lucani di Aliano, si chiama “La Luna e i falò” ed è richiesto ai partecipanti di non limitarsi a essere semplici spettatori di poeti e performer e artisti, ma pure di “proporre qualcosa” (tanto al sud va bene tutto, tutto fa spettacolo e tutto fa arte, tanto è il bisogno di liberare gli animi oppressi). C’è un sud talmente virtuoso che fa produttivi anche i poeti, improduttivi per costituzione, lo avreste detto mai? E’ un sud che sembra lontano migliaia di miglia da quello di Sonia Serazzi, che risuona, invece, in un poeta che Arminio si è impegnato a far conoscere e che si chiama Alfonso Guida, il quale scrive: “Ci hanno messo una croce d’olio in gola, abbiamo indagato nei labirinti le presenze umane dovuti agli uragani della specie. Nulla ne è uscito. Solo un pigro viaggio tra realtà infagottate”. Quando si svegliano i poeti, crollano gli assessorati al turismo. Guida incontra Serazzi soprattutto perché una volta, leggendo una sua silloge in una piazza, ha detto: “Del mio paese amo lo stare abbandonatamente nelle cose”. Il paese di Guida è San Mauro Forte (Matera), che un po’ casca a pezzi e un po’ no, un po’ è abbandonato e un po’ è vivissimo (c’è anche un museo multimediale ispirato a un libro di Cesare Malpica, Viaggio in Basilicata) ed è uno di quei posti che ti rivelano inequivocabilmente che “la realtà delle cose è lo sfacelo” (lo ha scritto Giorgio Vasta, pensando al deserto americano) e, così, ti iniettano fatalismo e adrenalina. Ne Il cielo comincia dal basso non succede niente: ci sono centosettanta pagine di contemplazione di vita domestica, che domestica tale resta anche fuori, sugli autobus, nelle stazioni, nelle case degli altri, durante le passeggiate. Non c’è alcun movimento di riscatto, ricerca delle radici, dissotterramento di verità nascoste, cioè nessuno dei tre stucchevoli movimenti che molta letteratura sul sud e/o dal sud compie da decenni. Rosa Sirace ha un’età non precisata, tra i trenta e i quaranta passati, vive con sua madre (casalinga, a casa la chiamano Baronessa di Babbumannu), suo padre (ex operaio, a casa lo chiamano Visconte di Verolea) e sua nonna, Antonia Cristallo, che a ogni capodanno brinda e dice che è l’ultimo “e prima o poi azzeccherà la previsione”. Rosa non esce mai, tranne che per andare a fare ogni tanto qualche supplenza e allora prende l’autobus delle Ferrovie della Calabria, dove “i finestrini sono televisioni sul Golfo di Squillace” e l’autista accende la radio con la musica romantica e tutti cantano, però sottovoce. Oppure, Rosa esce quando il suo amico che lavora a Milano va a trovarla e si arrabbia con lei perché non lavora e le dice che finirà a fare la barbona a Roma, chissà perché proprio a Roma. Anche suo padre la riprende, perché lei non si vuole sposare, ma la volta che ha provato a fidanzarsi con un tizio, quello era, anzitutto, geloso tanto che lo innervosivano i vestiti chiari, troppo appariscenti, e stronzo tanto che l’aveva mollata per una bionda, e sciocca lei a non farlo prima, perché “era tanto triste che mi dispiaceva lasciarlo solo a piangere nel mondo”. Di chiunque fosse stata la colpa, la Baronessa di Babbumannu si era risentita con Dio, perché aveva capito che, dopo quella volta, sua figlia avrebbe chiuso coi maschi. E infatti (però un bacio lo aveva dato, prima di partire per l’università, giusto per andare via da casa potendo dire di aver baciato un calabrese).

   

Sebbene a ogni riga si senta che lei scrive così perché è nata in un certo posto, la voce che racconta non appartiene a un luogo, ma alla vita 

E’ soprattutto in casa che sta Rosa Sirace. Da lì immagina i fidanzati che non desidera e tinge i capelli alla nonna, alla mamma, alle amiche, anche alla Palombella, che mantiene la famiglia facendo la bidella e ha il marito invalido che l’ha messa incinta sette volte. La sera aspetta il film delle 21.15 in tv, ma prima si accerta, insieme ai vicini, che tutti siano rientrati, prima di chiudere le porte e le imposte e guardare il tg “che ci rinfaccia il mondo, così ci stringiamo gli uni agli altri in questo puntino di paese, e ci ripetiamo che la vita può migliorare un poco, e se non migliora noi portiamo pazienza, e siamo contenti di salutarci al mattino”. Si porta pazienza nel paese universale e nella Calabria che è nel cuore di ogni uomo di Sonia Serazzi. E così si scopre, con lei, che mettersi la crema sul viso è un modo di accarezzarsi da soli, che il rispetto è più dell’amicizia, perché è un’alleanza, che quando uno dice “scusa se t’interrompo”, poi l’aria diventa profumata. Esiste davvero questa Calabria? Esiste davvero un pezzo di mondo così? Che vita è, quella di Rosa e di sua nonna e del loro paese? Ce l’ha uno scopo? Certo: cercare il bene sulla superficie delle cose, affezionarsene, smetterla di volerle cambiare, truccare, migliorare. Smetterla di caricarle di diritti. E’ una vita inapplicabile al nostro tempo? Certo che sì ed è per questo che arriva dalla Calabria, verrebbe da dire. Il punto è che lì succede e meno male che non ce ne accorgiamo troppo, altrimenti da un libro così vitale, allegro, intenso tireremmo fuori un festival e qualche slogan di crescita della decrescita. Il sud che sta abbandonatamente nelle cose è così: Rosa Sirace che si danna e vergogna per non essere riuscita a trattenere un’espressione di disgusto quando, alla fermata dell’autobus, è arrivato un signore con la sigaretta accesa che, accortosi di darle fastidio, si è allontanato a occhi bassi – “stavo per scusarmi ma ho preferito vergognarmi in silenzio del mio stomaco che si muove per niente: dice nonna che la vergogna è un bagaglio da caricarsi in spalla, per imparare passi più giusti”. Non abbiamo, noialtri metropolitani, bisogno di farci dire questo, dal sud dei nullafacenti che hanno tempo per pensare e s’inventano d’esser poeti o scrittori pur di non lavorare (“se la poesia è una cosa per stare alla finestra senza finire bacchettata, allora sono molto poetessa”)? Non abbiamo bisogno che una voce sommessa e intensa e un po’ sfottente ci suggerisca di ridimensionarci, di avere pudore e provare vergogna, ogni tanto, per tutti i nostri diritti che ci tengono lontani dall’attenzione verso l’altro?

  

“Del mio paese amo lo stare abbandonatamente nelle cose”, dice il poeta Alfonso Guida. Un paese che un po’ cade a pezzi, un po’ no

Nel libro di Giuseppe Catozzella E tu splendi (Feltrinelli), c’è un ragazzino figlio di emigrati lucani che torna, nella sua prima estate da orfano, nel paesino della madre e lì scopre una famiglia di immigrati clandestini che si nasconde in una torre normanna grazie alla complicità del parroco. Un ragazzino ben lontano dall’età della barba e che però pensa cose come “è incredibile l’egoismo degli armadi” e “a me della terra piace sentire il profumo, non lavorarla e spaccarmi la schiena per dissodare e concimare”. Prevedibilmente, l’accoglienza dei clandestini è complicata da razzismo e paura. Ancora più prevedibilmente, un paio di caporali ne approfittano. Il finale non si dice, ma è ovvio dalla prima pagina che la parabola dell’integrazione si compirà con tutti i crismi. E’ interessante la Basilicata di Catozzella, perché riesce a essere perfino più insopportabile, finta e inesistente di quella di Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo, che almeno aveva il merito di essere un po’ comica e un po’ magica. Perfino più irreale degli spot della Lucania Film Commission, dove ci sono buoi e fegatini e peperoni e maschi in canottiera e insomma la Puglia scopiazzata da qualche film vecchio di Sergio Rubini. E tu splendi invece è: Pasolini, Scotellaro in esergo, novenni appena alfabetizzati che fumano lungo i torrenti dove vanno a guardare gli adulti che scopano, i busti di Mussolini dentro le case, i bambini che chiamano i nonni “Nononni”, il paese che odora di “pietra al sole” e le persone che si lavano col Felce Azzurra, maschi con la brillantina in testa. Tutto questo splendore e nessuno che accenda la luce. Il pezzo di sud che non cambia mai non è mica solo San Ferdinando di Calabria: è anche, soprattutto, un’impostura letteraria che finisce in classifica, dove si vuol leggere solo che il cielo è sempre più blu e non che, invece, siccome comincia dal basso, il cielo è pure sempre più giù.