“Io ho sentito un bruciore alla gamba. Ho visto quell’uomo, bianco, con il fucile. Ha esploso quattro colpi dall’alto verso il basso” (foto LaPresse)

In morte di Soumayla Sacko

Marianna Rizzini

Storia di un bracciante ucciso, e sottostoria di tutto quello che gli ruota intorno (vedi ieri in Senato)

Roma. Una moglie, una famiglia e una bambina, in Mali, attendono il rimpatrio della salma. I carabinieri, in Calabria, notificano un avviso di garanzia. Il neopresidente del Consiglio Giuseppe Conte, in Senato, dopo due giorni di criticato silenzio del neogoverno, apre una parentesi nel discorso programmatico (applaudita, a differenza del resto, anche dalla minoranza). Il sindacato Usb continua la mobilitazione, fino alla manifestazione nazionale del 16 giugno. Lui, la vittima, Soumayla Sacko, bracciante maliano e attivista sindacale di 29 anni, ucciso da un colpo in testa partito dal fucile di un uomo bianco sceso da una Panda bianca, sabato 2 giugno, in una vecchia fornace abbandonata nei pressi di San Calogero, mentre Soumayla con due amici cercava lamiere da usare per sistemare una baracca della baraccopoli di San Ferdinando, vive nelle foto incollate sul cartone, portate lunedì in corteo dagli altri braccianti. Maliani e non solo, per la maggior parte regolarmente in Italia come Soumayla – che aveva il permesso di soggiorno ed era arrivato più di otto anni fa – e per la maggior parte, come Soumayla, immersi nella ripetività senza respiro di quello che viene chiamato lo “svincolo”: il punto dove ci si mette la mattina presto, ad aspettare il lavoro da 2 o 3 euro all’ora. Uomini e caporali. “Cinquanta euro al mese, neanche da poterci fare colazione tutti i giorni”, dice al Foglio l’esponente sindacale Usb Aboubakar Soumahoro, denunciando le condizioni d’impiego e “il mancato inserimento abitativo di questi braccianti”. Si raccolgono agrumi, Piana di Gioia Tauro. Dodici ore se si “prende” la giornata. Prima e dopo c’è la baraccopoli o la tendopoli, rimasta senz’acqua per due giorni, hanno detto ieri alcuni braccianti intervistati dalla tv locali, mentre uno di loro, con la maglia a righe bianche e nere della Juventus, protestava per la sorte mediatica toccata all’amico ammazzato innocente, ma nelle prime ore trattato, secondo alcuni titoli cubitali sul web, come il ladro che non era. E c’è, dice Soumahoro, la “comunità” che chiede ora “verità” e da tempo “giustizia” (sociale e abitativa), comunità della baraccopoli e della tendopoli nata dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno”, nel 2010, in anni di governo Berlusconi, con Roberto Maroni ministro dell’Interno, e cresciuta negli anni, ma sempre tra baracche e tende. (Sulla Stampa, così l’ha descritta Nicolò Zancan: un luogo che si è “trasformato in una specie di città… senza acqua, senza bagni, senza diritti. Ma piena di esseri umani. Lavoratori. Fino a cinquemila persone nelle pozzanghere d’inverno, nel caldo soffocante d’estate”).

 

Poi ci sono le poche informazioni sulla vita di Soumayla: lavoratore, amico, padre lontano, uno che spiegava che per i diritti si “poteva lottare”, dicono di lui. Prima dello sparo, però, che non è neanche uno sparo nel buio, visto che erano le sei del pomeriggio, come ha raccontato a Radio Radicale Guido Lutrario dell’Usb, sottolineando la probabile “premeditazione” dell’assassinio, così descritto dal testimone oculare (ferito), l’amico di Soumayla, il trentanovenne Dram Madiheri: “Servivano delle lamiere e siamo andati in quella fabbrica. Siamo partiti a piedi dalla tendopoli e giunti sul posto avevamo fatto in tempo a recuperare tre lamiere quando qualcuno è arrivato a bordo di una Fiat Panda vecchio modello e ci ha sparato addosso, Sacko è caduto colpito alla testa. Io ho sentito un bruciore alla gamba. Ho visto quell’uomo, bianco, con il fucile. Ha esploso quattro colpi dall’alto verso il basso”. Soumayla è morto dopo poco, all’ospedale di Reggio Calabria. Madiheri e l’altro amico, colpito anche lui, sono vivi e increduli. I carabinieri hanno escluso il movente razziale, Don Pino De Masi di Libera ha detto che Sacko ha perso la vita “perché nei nostri territori qualcuno ha deciso così”, e la storia delle lamiere si è complicata del precedente: lamiere e non più solo tende, perché nel gennaio scorso c’era stato un altro morto. Una ragazza, in un rogo divampato nella città di tela, motivo per cui Sacko, che era anche come si è detto attivista sindacale e, dice Soumahoro, “in questi anni aveva preso consapevolezza della situazione”, aveva deciso di aiutare la costruzione di baracche – precarie pure quelle, ma non infiammabili come le tende. (Scrive Flavia Perina su Linkiesta: “…oltre la polemica sui migranti, oltre le narrazioni sulla sicurezza, sui permessi di soggiorno, sui rifugiati e sui clandestini da rimpatriare, ecco, magari sarebbe ora di chiedersi perché certi pezzi di Sud – pezzi molto larghi – sono rimasti uguali a se stessi, indifferenti al cambiamento epocale della società, alle regole, a tutto ciò che altrove è diritto costituito e difficilmente aggirabile. Perché i caporali lavorano alla luce del sole, in tutti i crocicchi della piana di Gioia Tauro, chiedendo il pizzo persino per il trasporto sui campi…”).

 

“Matteo Salvini la deve smettere di parlare come parla”, dice Soumahoro. E con il passare delle ore Sacko diventa anche, come ha scritto Giuliano Ferrara, “martire tragicamente simbolico perché ucciso mentre un ragazzotto lombardo che fa il superpoliziotto disinvolto all’Interno predicava con brutalità ideologica contro la ‘pacchia’ degli immigrati, che lui al comando ora è finita…”. Intanto ieri il sindacato Usb, dopo l’intervento del neopremier (“una riflessione merita la vicenda tragica e inquietante”, ha detto Conte, “ …Sacko è stato ucciso con un colpo di fucile: era uno tra i mille braccianti, con regolare permesso di soggiorno, che tutti i giorni in questo paese si recano al lavoro in condizioni che si collocano al di sotto della soglia della dignità… la politica deve farsene carico…”), ha rilanciato la mobilitazione: “…Il governo ha finalmente trovato la voce ed è intervenuto ufficialmente su un omicidio pianificato per mettere a tacere le rivendicazioni degli sfruttati di San Ferdinando e, più in generale, dei lavoratori che nelle campagne lottano per i diritti con l’Unione sindacale di base… E’ importante perché rompe il silenzio tombale di Salvini e Di Maio, un’afasia tanto grave da aver provocato la discesa in campo, in tv e sui giornali, di firme di ogni appartenenza… E’ importante che ora si dia un seguito a questi fatti e che si intraprenda la strada per garantire veramente e stabilmente i diritti dei lavoratori dei campi, degli sfruttati e degli invisibili che si dannano per due euro l’ora”. Le indagini non sono ancora giunte al termine. Ma, nel mezzo del simbolismo scatenato da questa storia triste, e dalle lamiere della fornace abbandonata, esce – bambola più piccola della matrioska “polemica sul sud” – il fantasma sotteso dei presunti “rifiuti tossici”, “sotterrati” nelle viscere della terra di nessuno.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.