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Il paese che brancola sul ciglio della propria storia

Paola Peduzzi

Il governo s’affida alla discontinuità, ma giocare con Europa, Nato e G7 è un rischio: i nuovi alleati sono nostri nemici

Milano. Bisogna essere “testardamente ciechi” per non accorgersi che il cambiamento, quella ideologia della discontinuità che tutto ribalta e nulla assesta, ha nomi, facce, consenso, “persone reali” che stanno “ridefinendo la democrazia in Europa”. Steve Bannon, guru trumpiano caduto in disgrazia in America presso i finanziatori top della rivoluzione del popolo-contro-le-élite che ha trovato un’audience plaudente nel nostro continente, ha firmato un articolo sullo Spectator, magazine conservatore britannico, in cui racconta come i “deplorables” di clintoniana memoria stanno “lottando e vincendo” contro i partiti tradizionali, i poteri forti, il mainstream europeista e liberale. Bannon ha vissuto in diretta a Roma, dall’hotel Raphael, “i dieci giorni che hanno cambiato il mondo”, quelli in cui il governo gialloverde ostacolato da tutti, affossato, denigrato, ridicolizzato, è riuscito infine a diventare realtà, a giurare con i selfie e le calze a righe. Prima di questi dieci giorni straordinari, scrive Bannon, ci sono stati dieci anni che hanno fatto da catalizzatori del cambiamento epocale, il popolo che perde tutto, soldi e sicurezza, e le élite che non pagano mai, fino a che non si ritrovano – finalmente, dice il guru – con il conto più alto da pagare, quello per cui non hanno né fondi residui né energie, il modello liberale allo stremo, forze alternative che sanno come sostituirlo. Il mito di Bannon, non da oggi, è Viktor Orbán, premier ungherese, ma ora anche Matteo Salvini è salito nella classifica dei lottatori per la discontinuità: entrambi vengono liquidati come “tirapiedi di Putin”, massimo sfregio, quando “è evidente, come sa anche Donald Trump, che ci sono influenze più malevole e più urgenti nel mondo che devono essere subito affrontate: la Cina, l’Iran e la Turchia, solo per nominarne tre”.

   

Bannon è sicuro quando colloca l’Italia gialloverde nel gruppo dei lottatori contro la democrazia liberale, più a est di quanto sia mai stata, più vicina alla Russia che al cuore europeo franco-tedesco, discontinuità purissima rispetto al passato; noi stiamo ancora cercando di capire che cosa si annuncia e che cosa davvero si fa, ché brancolare sul ciglio dell’Europa e della Nato è un’attività faticosa e dagli esiti incerti, ma intanto arriva il primo test, quel G7 canadese che parte oggi con aspettative rasoterra. L’esordio internazionale del premier Giuseppe Conte arriva in un momento in cui bisogna avere le idee chiare sui propri obiettivi, e con appunti ordinati sulle conseguenze delle proprie decisioni. Per quanto possa sembrare paradossale, l’interlocutore più problematico oggi è il primo amore bannoniano, il lottatore in chief Donald Trump, che con la sua politica stracciatrattati ha messo in confusione i suoi alleati storici (anche l’Italia è tra questi). Gli americani liquidano le tensioni in corso come naturalissimi “bisticci di famiglia”, ce ne sono stati molti dal primo vertice nel 1975 a oggi, inflazione, missili americani in Europa, deficit, la guerra in Iraq – poi si è sempre trovata una ricomposizione. Ma oggi il conflitto sembra più profondo, perché non riguarda una o due questioni, bensì il futuro del sistema di alleanze, istituzioni, rapporti su cui si fonda il dialogo globale moderno.

  

C’è già chi parla di un G7 che in realtà è un G6, grande assente è l’America che si fa la sua politica sull’Iran, sulla Russia, sui dazi, sul clima, e lascia gli alleati ad abbassare aspettative e preparare contromisure – la commissione europea ha preparato una lista di prodotti americani, dalle carte da gioco al burro di noccioline ai jeans agli yacht, che saranno colpiti da dazi addizionali tra il 10 e il 50 per cento. L’ospite canadese non sa nemmeno su cosa puntare per la dichiarazione finale, non c’è un argomento che unisca i sette grandi del mondo, mentre la cancelliera tedesca, Angela Merkel, dice di essere pronta a non avere alcun documento congiunto, meglio niente che “un compromesso fatto solo in nome del compromesso”. Trovare un alleato privilegiato alternativo all’America è impossibile, si possono fare affari con la Cina o avvicinarsi alla Russia sulla questione iraniana (così fa l’Ue ora), ma è necessario sapere con chi ci si vuole schierare. L’Italia conquistata dall’ideologia della discontinuità, deve sapere, e di tempo non ce n’è molto, dove vuole posizionarsi e con quali finalità, altrimenti rischia di non ottenere nulla, o peggio ancora di rimanere senza un posto, il pericolo più grande per il paese che brancola sul ciglio della propria storia.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi