Jean Claude Juncker (foto LaPresse)

Ecco l'unica onestà che non sa di truffa

Claudio Cerasa

Contro la società dell’emozione che produce fake news alla Juncker

Il punto in fondo è semplice e la partita tra le varie forze politiche oggi potrebbe essere sintetizzata anche così: per provare a governare un paese è preferibile scommettere sull’onestà morale o sulla radicale onestà? Sul New York Times di ieri, l’opinionista conservatore David Brooks ha dedicato un formidabile articolo di fondo all’ultimo libro di Steven Pinker – scienziato cognitivo canadese campione dell’ottimismo razionale di cui il Foglio ha scritto due giorni fa a proposito del suo “Enlightenment Now”– e nel farlo Brooks ha coniato un’espressione fantastica che involontariamente ci aiuta a capire meglio cos’è la spassosa e preoccupante sindrome Juncker.

 

Andiamo con ordine. Brooks tesse le lodi di un particolare approccio alla politica ben inquadrato dal titolo del suo commento: “The Virtue of Radical Honesty”. La virtù dell’onestà radicale non ha nulla a che fare con la retorica moralista di quei populisti un tanto al chilo che nascondono la propria grassa incapacità dietro a una generica promessa di nuova moralità, ma ha a che fare con un particolare approccio che Brooks consiglia di mettere in campo per provare a snellire l’agenda della fuffa culturale: smetterla di descrivere il mondo per quello che sembra e provare a raccontare il mondo per quello che è. L’onestà radicale nel racconto del mondo implica la necessità di saper distinguere tra ciò che è discutibile e ciò che non è discutibile, tra ciò che costituisce un’opinione e ciò che costituisce un fatto, e implica anche il dovere di ciascuno di noi di non ingrossare ogni giorno la fabbrica della percezione.

 

Il ragionamento implicito offerto da Brooks suona più o meno così: essere onesti di fronte ai fatti significa naturalmente sacrificare parte del proprio arsenale retorico, ma alla lunga il sacrificio non può che essere utile perché costringe l’opinione pubblica a costruire un’agenda sempre meno fittizia, finalizzata ad affrontare i veri problemi di un paese e non quelli fake. “Our nation”, dice Brooks, “is emotionally sick” e quando una società è malata dal punto di vista emotivo non c’è che una cura: una immersione nel razionalismo duro e crudo. A voler proiettare il ragionamento di Brooks nella campagna elettorale italiana, un’immersione nel razionalismo nudo e crudo – è dura, lo sappiamo – avrebbe la conseguenza di mettere molte forze politiche di fronte ad alcune realtà difficili da riconoscere. Per esempio, si sarebbe costretti a dire che l’Italia è un paese che potrebbe stare meglio ma che nel frattempo sta ogni giorno un po’ meglio e non ogni giorno un po’ peggio. Per esempio, si sarebbe costretti a dire che l’Italia è un paese che potrebbe essere più sicuro ma che nel frattempo è ogni giorno un po’ più sicuro e non ogni giorno meno sicuro. Per esempio, si sarebbe costretti a dire che l’Italia è un paese dove potrebbero esserci più crescita e più esportazione ma che nel frattempo ogni mese cresce di più di quello precedente e ogni mese esporta di più di quello precedente e non di meno. Per esempio, si sarebbe costretti a dire che l’Italia ha un Sistema sanitario che potrebbe essere migliorato ma che nel frattempo è da anni uno degli ingredienti che fanno del nostro paese quello più in salute al mondo e non quello più sull’orlo del collasso. Un’immersione nel razionalismo politico porterebbe naturalmente a parlare in modo onesto e dunque cruento dei problemi del nostro paese. Porterebbe a dire che la produttività è un problema più grave dell’immoralità.

 

Porterebbe a dire che l’inefficienza è un problema più grave dei costi della politica. Porterebbe a dire che l’assenza di concorrenza è un problema più grave dell’assenza di un agente provocatore. Porterebbe a dire che la crisi demografica è una crisi molto più reale rispetto a quella economica. Il ragionamento di Brooks, e il suo splendido manifesto sulla virtù della Radical Honesty, ci dice tutto questo ma ci dice molto altro. E se vogliamo ci aiuta a capire che in fondo se ogni tanto dall’Europa arriva qualcuno che accusa l’Italia di essere a rischio operatività – come ha fatto il presidente della Commissione europea Juncker due giorni fa – quel qualcuno non va accusato di essere ingiusto con l’Italia perché quel qualcuno non ha fatto altro che ripetere alla lettera quello che ogni giorno gli italiani dicono e scrivono di se stessi. A forza di giocare con l’agenda della percezione e dell’emotività – a forza di dire che siamo un paese che funziona sempre peggio, che è sempre più sfasciato, che è sempre più insicuro, che è sempre più corrotto – saremo inevitabilmente percepiti sempre meno per quello che siamo e sempre più per quello che ci raccontiamo di essere. E d’altra parte, a forza di raccontare a noi stessi che siamo un paese che ogni giorno se la passa sempre peggio, saremo destinati a credere sempre di più alle fake news sull’Italia (ieri, per dirne una, avete letto che le parole di Juncker hanno fatto crollare la Borsa, ma in realtà la Borsa prima delle parole di Juncker perdeva lo 0,8 per cento, dopo le sue parole sulla non operatività dell’Italia è arrivata nientemeno che allo 0,9) e saremo destinati in definitiva a non credere a chi, parlando dell’Italia, si limita semplicemente a raccontare la verità. Ne vale la pena?

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.