Solo Dostoevskij può spiegare la corsa dei politici in tv dal pm Travaglio

Guido Vitiello

Da Ciancimino jr. ai nuovi depistatori, così il giornalista più che un Inquisitore è diventato il protettore dei pataccari

I tribunali dei talk-show funzionano a pieno regime da un quarto di secolo senza uno straccio di codice di procedura; ma se qualcuno mi dà una mano con il latino suggerisco di piantare almeno la bandierina di un brocardo, traducendo una frase di Rodolfo Wilcock che ogni imputato televisivo dovrebbe stamparsi nella mente: “L’ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori”. Questo ho pensato quando Maria Elena Boschi ha chiesto di rendere dichiarazioni spontanee al pubblico ministero Marco Travaglio; o quando anni fa Pietro Grasso, avvilendo inutilmente la dignità della sua carica, sollecitò un confronto con quello stesso accusatore. Riconoscere senza necessità un giudice e un foro competente è un primo atto di sottomissione da cui ne discendono mille altri, ben più gravi della buona o cattiva figura che si può fare in udienza. Ma in quest’ansia di scagionarsi davanti a Travaglio, di dimostrare la propria innocenza al suo cospetto, c’è un tratto misterioso che solo la grande letteratura può illuminare.

 

Non si tratta di descrivere il masochismo con cui quel che resta dei nostri ceti dirigenti inscena ogni giorno il suo suicidio rituale, da Bersani che implora di assaggiare di nuovo la ferula dello streaming al teatrino-manicomio della commissione banche: per quello basta il “Marat/Sade” di Peter Brook; neppure è questione di setacciare le pagine dei letterati in cerca di un ritratto su misura per questa ennesima riedizione dell’archetipo molieriano di Tartufo. No, è un fenomeno più sottile, che sta all’intersezione tra le due vie dell’umiliazione cerimoniale e dell’impostura virtuosa, e per il quale solo Dostoevskij, nel “Villaggio di Stepàncikovo”, ha saputo trovare le parole: “Egli inacerbì, inacidì, fece lo schizzinoso, si arrabbiò, sgridò: ma la venerazione dei ‘felicitati’ verso di lui non solo non diminuiva, ma anzi cresceva ogni giorno, in proporzione dei suoi capricci”. E’ l’inspiegabile magnetismo morale di Fomà Fomìc, intellettuale di provincia che sogna di fondare una rivista letteraria a Mosca (“e allora – guai ai miei nemici!”) e di far scricchiolare tutta la Russia. Di talenti ne ha pochi, salvo una subdola abilità di retore che gli consente di tessere una tela di ricatti morali; in compenso ha uno smisurato e sanguinante amor proprio, che lo rende permaloso, tirannico e incline all’uso sadico di una virtù tutta millantata, che maneggia come un pugnale. Eppure, riesce a impiantarsi regalmente in casa di una generalessa e del figlio, e a farsi temere e adulare da tutti gli abitanti.

 

Ecco, riscuotetevi dal sonno delle cronache, e contemplate con Dostoevskij questo mistero non so se buffo o doloroso: schiere di penitenti si accodano a parlare di verità e menzogna con il santo protettore di tutti i pataccari d’Italia, da Ciancimino jr. ai nuovi depistatori, e questo pare tutto sommato normale. Più lui s’incattivisce, più diventa paonazzo e gli s’ingrossa la giugulare, più lancia i suoi cachinni striduli – e più quelli lo blandiscono. Insulta pubblicamente i vecchi per le loro dentiere, dice cose atroci sui suicidi di Mani pulite (“almeno qualcuno ce lo siamo levato dai coglioni”) e in cambio c’è chi lo chiama “l’angelico Marco Travaglio” (così Roberta De Monticelli, altra materia da romanzo). E’ medaglia d’oro di eristica a ostacoli e di taglio e cucito di verbali, ma Paolo Mieli si affretta a riconoscergli, sempre al Piccolo Teatro Gruber, che è “intellettualmente onesto”. Ha quel taglio di capelli, quella camicia sbottonata sotto il gessato (“matrimonio a Casavatore dopo la torta”, commentò genialmente Massimo Bordin), una mentalità da strapaese, i suoi riferimenti culturali sono Totò e Peppino, ma nessuno si arrischia a sorridere quando dice che Renzi è “un piccolo provinciale sceso a Roma con la sua corte”.

 

Solo un Dostoevskij potrebbe illuminare la strana meccanica di questa altalena a carosello per cui una mediocrità ogni giorno più esibita fa sprofondare amici e nemici in una immotivata soggezione. Forse la postura dell’inquisitore, quand’anche ad assumerla sia il meno degno, suscita la postura complementare dell’inquisito. Ma “l’ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori”. Un giudice così non basta revocarlo, o disinfettarne lo scranno; si dovrebbe ignorarlo con umoristica sprezzatura. Come scrisse quarant’anni fa un altro grande romanziere: “Fomà Fomìc, chi era costui?”.

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