LaPresse/Fabio Cimaglia

Il M5s, condannato al non-accordo, teme di essere "unfit"

Marianna Rizzini

Il non poter fare accordi, pena la perdita dello zoccolo duro nell’elettorato, può far perdere occasioni non più perdibili

Roma. La sensazione, all’indomani delle due giornate di protesta anti Rosatellum, non è quella del successo mediatico per i Cinque stelle. La chiamata a raccolta del “popolo” M5s contro la mossa “fascista” del governo che ha posto la fiducia sulla legge elettorale ha ottenuto infatti visibilità, ma non è stata premiata dalla comparsa di folle oceaniche, neppure quando Beppe Grillo in persona è sceso a Roma (e infatti l’ex comico ha scelto la linea defilata). E alla fine, quella che doveva essere la due giorni di vittoria morale grillina si è trasformata in una mezza-cosa – o forse nella solita cosa: il M5s che non si sporca le mani con “gli accordi” e le intese cordiali con gli altri partiti, e lo splendido isolamento che diventa pegno da pagare alla parte più attiva della base, la constituency che non accetterebbe un movimento spurio rispetto alle origini. E però qualcosa scricchiola: sono mesi che Davide Casaleggio, in coordinazione o in alternanza con Luigi Di Maio, cerca per così dire di allargare la base di consenso (convention di Ivrea sul futuro, occhio agli ambienti di Cernobbio), ma non può farlo più di tanto, perché intanto ci sono le elezioni locali e nazionali all’orizzonte. E, sul piano elettorale, la parola d’ordine è ancora e sempre “no inciuci, no alleanze”. Si crea così il paradosso del processo di “maturazione” a Cinque stelle azzoppato, motivo per cui si cerca intanto di capitalizzare sul fronte voto, cercando la manovra diversiva per la ripartenza mediatica: oggi con la kermesse a Marino, vicino a Roma, giornata di “condivisione” e proclamazione del candidato (Roberta Lombardi) alla corsa per il governo della regione Lazio, e da domani, come annunciato sul blog di Grillo, giù al sud, per lanciare la tonitruante campagna di Sicilia, con Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista accanto a Giancarlo Cancelleri, e Beppe Grillo annunciato nuovamente in campo (ma c’è chi, nel M5s, dopo Roma, comincia a temere un Grillo defilato pure sull’isola che lo vide un giorno arrivare a nuoto).

  

Se guarda al futuro, il M5s che si vorrebbe di governo avverte il pericolo di trovarsi a un certo punto “unfit”: il non poter fare accordi, pena la perdita dello zoccolo duro nell’elettorato, può far perdere occasioni non più perdibili. Il passato, infatti, dice che il M5s, lungo la strada della possibile “crescita”, si è più volte trovato al bivio: prendere l’occasione, dimenticando il diktat purista, o dare la colpa agli altri, rassicurando l’esercito di attivisti che vigila sul niet al dialogo con “loro” (i partiti, i presidenti del Consiglio, i presidenti della Repubblica). E se, nel 2013, con il M5s appena arrivato in Parlamento, la tentazione della parte pragmatica degli eletti a Cinque stelle di non dire del tutto “no” a Pier Luigi Bersani non poteva non essere soffocata (impossibile infatti perdere la faccia truce in un mese), già nel 2014, in tempi di irrigidimenti con Matteo Renzi sulla legge elettorale – e di successivo accordo Renzi-Berlusconi – ci fu chi, nel Movimento, denunciò come suicida la tendenza all’isolamento. Lo dicevano alcuni dei grillini poi espulsi o fuoriusciti (per esempio Lorenzo Battista e Francesco Campanella): non diranno mai di sì a un nostro testo, dobbiamo parlare con gli altri, magari farci dire no e rilanciare per ottenere “una sintesi soddisfacente”. Niente. Passavano gli anni e, nella primavera del 2017, sul sistema tedesco (approvato dalla base grillina), pareva si fosse giunti a una sorta di accordo con il Pd. Sottotraccia, però, le due anime del M5s combattevano: si può raggiungere un’intesa con colui (Renzi) che è stato a lungo definito “pericolo per la democrazia”? Non si poteva (intanto, via blog di Grillo, era stata fatta anche una giravolta sull’Italicum, dopo la vittoria del “no” al referendum). Il resto è storia d’oggi, con la zavorra del “vade retro chiunque” che rende preventivamente amara la campagna elettorale dei condannati all’immobilismo.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.