Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Tarchi ci spiega perché il M5s funziona solo se fa il populista

David Allegranti

“Il partito di Grillo, che non è adatto a competizioni locali, va bene se rifiuta i compromessi. (E la Lega…)"

Roma. Le elezioni amministrative del fine settimana sono state molto inclementi nei confronti del M5s. Professor Marco Tarchi, politologo dell’Università di Firenze e studioso di populismi, perché il partito di Grillo paga un prezzo così alto? Ha ancora un problema di classe dirigente? “Perché, strutturalmente, non è una formazione politica adatta alle competizioni elettorali locali”, dice Tarchi al Foglio.

  

“I suoi militanti non conducono con continuità attività sul territorio che fuoriescano dai limiti canonici del movimentismo, non curano i rapporti interpersonali, insomma non costruiscono quel reticolo di frequentazioni e sostegni che consente di pescare voti in varie categorie quando si tratta di eleggere un’amministrazione comunale. E’ un problema di organizzazione, più che di classe dirigente: qui l’uno vale uno e la rete c’entrano poco. E non sempre capitano casi in cui i danni fatti dai partiti tradizionali predispongono un successo per travaso di voti da destra contro la sinistra o viceversa, come è accaduto a Parma, a Livorno, a Roma”. L’immagine dell’amministrazione Raggi ha pesato?  “Ha pesato l’immagine di scarsa affidabilità e imperizia che, a torto o a ragione, media e avversari hanno incollato addosso al M5s. E ha pesato l’insieme dei dissidi e delle diatribe che hanno funestato la vita del Movimento da almeno quattro anni a questa parte. Il caso Pizzarotti docet”. Le logiche della pubblica amministrazione, spiega Tarchi, “sono complicate e delicate; è giusto depurarle della troppo diffusa tendenza al clientelismo e alla corruzione, ma bisogna pur accettare mediazioni e non recidere ogni divergenza con la spada dei provvedimenti disciplinari”. La leadership di Di Maio ne esce indebolita. Forse il M5s degli ultimi mesi è apparso troppo arrendevole rispetto all’inizio? L’accordo “a quattro” sulla legge elettorale è stato giudicato da qualcuno come un gesto di debolezza. “Fino ad oggi, il M5s ha avuto pieno successo quando ha indossato i panni e i toni del movimento populista, trasversale rispetto agli abituali spartiacque politico/ideologici, capace di identificare una serie precisa di bersagli tabù per i concorrenti e di colpirli, puntando spesso a solleticare umori ribelli e opinioni politicamente scorrette. Cioè quando si è fatto portavoce del discorso politico che Beppe Grillo ha sostenuto in tutte le occasioni per anni. La prospettiva di governo rischia, come è accaduto in precedenti casi a formazioni analoghe, di scolorire quell’immagine, di far imboccare la via di una moderazione a scopo tattico e di far apparire simili a tutti gli altri, se non disposti a compromessi con loro. Se vuole sventare il pericolo, Grillo – in prima persona – deve risistemare la rotta del movimento e farne risaltare di nuovo la vena alternativa, nel metodo così come negli obiettivi”.

 

Arriviamo al risultato del centrodestra. Ha dimostrato che unito può essere ancora molto competitivo contro il centrosinistra, anche se complessivamente sembra mancare un progetto politico. In questo quadro, la Lega è destinata ad abbandonare i desideri di egemonia? “Il relativo successo del centrodestra in questa tornata amministrativa ha, paradossalmente, qualcosa a che spartire con il successo macronista in Francia. In entrambi i casi è la risultante di un voto ‘par défaut’, ovvero in mancanza di meglio. Ed è gonfiato da alti tassi di astensione. Non c’è dubbio che in sede locale il meccanismo elettorale inviti ad una scelta fra due poli e spinga perciò all’aggregazione; in ambito nazionale, però, le cose funzionano diversamente, e credo che l’assetto tripolare dell’opinione pubblica tenga ancora fortemente. Inoltre Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e alleati minori possono abbastanza agevolmente concordare su una candidatura a sindaco, visti anche i dividendi spartibili in caso di successo, ma quando si tratta di prendere posizione sui grandi temi che investono un paese – immigrazione, identità, politiche del lavoro, rapporto con l’Europa, alleanze internazionali – lo scenario si inverte: le differenze prevalgono sui punti di incontro”.

 

E, aggiunge il professor Tarchi, “dubito che gli elettori leghisti e berlusconiani potrebbero convergere su un programma comune in cui posizioni a loro care venissero sacrificate”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.