Dramma italiano: la repubblica delle patacche
Chi trasforma le intercettazioni in verità assolute ha un problema non con un carabiniere, ma con la democrazia
Le ricostruzioni offerte ieri da molti giornali sull’incredibile storia del carabiniere del Noe che avrebbe manipolato (avrebbe, come siamo chic noi garantisti) due importanti atti di indagine relativi al caso Consip hanno aiutato a mettere a fuoco lo stato dell’arte dell’inchiesta che avrebbe dovuto far tremare i palazzi della politica (Woodcock chi?) ma non hanno invece fatto luce a sufficienza su un fatto che sfiora solo in modo tangenziale l’inchiesta Consip (e la storia di Tiziano Renzi) e che riguarda un dramma culturale e sistematico del nostro paese: la presenza di una repubblica giudiziaria fondata sulle patacche. Diciamo sistematico perché il punto è proprio questo: lo scandalo delle manipolazioni denunciate dalla procura di Roma non è relativo a qualcosa di straordinario, ma è purtroppo relativo a uno scandalo ordinario, quotidiano, tipico di un paese che accetta di diventare la buca delle lettere delle veline delle procure.
Allo stato dell’arte non possiamo dire (come siamo chic noi garantisti) se il carabiniere del Noe ha manipolato gli atti di indagine per incompetenza assoluta, per organizzare un complotto o per assecondare il tentativo di un qualche pm di dimostrare a tutti i costi un teorema giudiziario (Renzi kaputt). Possiamo però affermare senza paura di essere smentiti che quando un paese accetta di dare dignità alla barbarie del processo mediatico succede quello che stiamo vedendo in questi giorni: la presunzione di innocenza viene utilizzata come carta igienica, i documenti di un’indagine si trasformano nei dieci comandamenti di Mosè, le verità parziali dei pm diventano verità assolute, i politici utilizzano le verità parziali come lanciafiamme contro i propri avversari politici, i giornalisti rinunciano a svolgere un ruolo di bilanciamento delle versioni dei pm trasformandosi in cagnolini al guinzaglio delle procure e le intercettazioni vengono infine utilizzate non come uno strumento delicato da maneggiare con cautela per approfondire un’indagine, ma come un’arma di distruzione di massa della credibilità altrui.
Lo scandalo nello scandalo Consip è prima di tutto questo. E per capire la gravità di quello che è successo con le intercettazioni sul padre di Matteo Renzi bisogna uscire dalla logica del caso straordinario (aiuto, il complotto) e provare a rispondere a una domanda semplice e purtroppo ordinaria: perché l’opinione pubblica italiana ha scelto di non vaccinarsi contro la repubblica giudiziaria fondata sul processo mediatico? E perché la stessa opinione pubblica tende a non chiedersi se sia sufficiente un’intercettazione per condannare un indagato, e tende a non capire che il problema di un’intercettazione manipolata non è solo il fatto che quell’intercettazione sia stata manipolata ma è anche il fatto che qualcuno ci ha fatto credere che il contenuto di quell’intercettazione corrispondesse senza condizionali e senza ombra di dubbio a una verità assoluta?
La presenza di una repubblica giudiziaria fondata sulle patacche non è una novità di questi giorni (vi dice qualcosa il nome di Ciancimino jr, il paracarro, oggi arrestato, trasformato dai magistrati di Palermo in un’icona antimafia, nel teste chiave del processo farsa sulla trattativa stato-mafia?) ma è invece una novità il contesto all’interno del quale sta prendendo forma questo mostro giuridico. E non è certo un caso che l’avvento del Movimento 5 stelle coincida con una fase storica come quella che viviamo oggi, in cui buona parte dell’opinione pubblica ha scelto di trasformarsi in una buca delle lettere dei sussurri delle procure. Un paese fondato sulla cultura delle intercettazioni – e che mette sullo stesso piano il processo in un talk-show e il processo in un tribunale – è un paese che sceglie di scommettere sulla cultura del sospetto. E quando si afferma la cultura del sospetto, quando ci sono forze politiche che costruiscono il proprio consenso delegittimando l’avversario attraverso l’uso delle indagini, e spesso anche delle patacche, il passo successivo di solito è l’affermazione di una forma di governo ispirata all’autoritarismo. Il prossimo 23 maggio saranno venticinque anni esatti dalla morte di Giovanni Falcone. Da oggi a quel giorno sarebbe bello che nella repubblica delle patacche venissero ricordati alcuni suoi insegnamenti.
Primo: “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità: la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo”. Secondo: “Per fare un processo ci vuole altro che sospetti e bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie”. Terzo: “L’informazione di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato”. Quarto: “Nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese”. Un paese che cancella questi princìpi basilari è un paese che non ha un problema di trascrizione di una telefonata: è un paese che ha un problema di democrazia, e che sceglie di trasformarsi nell’anticamera del khomeinismo. È chiaro?
Post scriptum: che cosa diamine aspetta il ministro della Giustizia, il bravo Andrea Orlando, a mandare un pool di ispettori alla procura di Napoli (procura che ieri ha confermato la fiducia al Noe, aprendo un conflitto dunque con la procura di Roma, che ha invece sfiduciato il Noe) per verificare se a Napoli è stato solo un colpetto di sole o è stato invece un mezzo colpetto di stato? Fateci sapere, grazie, e fate presto.
L'editoriale del direttore