(foto LaPresse)

Quanto è difficile chiudere per sempre le insostenibili tv di stato

Piercamillo Falasca

Grecia, Israele, Italia. Senza una presa di coraggio, tra nemmeno troppo tempo ci potremmo trovare a gestire la crisi della Rai come fosse una novella Alitalia, costretta a essere svenduta perché nessuno si era assunto la responsabilità di venderla, quando si poteva.

 

 

Roma. Uno potrebbe credere che la soluzione per la Rai sia quella che il governo Netanyahu sta provando a implementare in Israele: chiudere l’attuale tv di stato, considerata inefficiente e poco indipendente, e aprire una nuova televisione, pubblica ma condotta secondo logiche di autentica sostenibilità economica e di terzietà dell’informazione. Dopo annunci, ritardi e polemiche, sembra che il passaggio avverrà a metà 2017, ma c’è chi scommette su ulteriori ritardi e chi è scettico sul fatto che sostituire una tv pubblica con un’altra tv pubblica possa produrre effetti concreti, tanto più che anche in Israele una delle questioni cruciali (tutto il mondo è paese) è quanta parte dei dipendenti dell’attuale Rashùt Ha-Shidur dovrà essere assorbita dalla nuova realtà.

 

Due anni fa ci provò il governo greco a chiudere la sua tv di stato: eravamo nel pieno della crisi, la Ert è da sempre un coacervo di inefficienze e clientelismo e una quota significativa dell’opinione pubblica ellenica si mostrava favorevole ad abbassare la serranda. Risultato? Due anni dopo la tv è stata ufficialmente “riaperta”, sebbene non avesse mai davvero chiuso. Di fronte a questi esempi mediterranei, uno può credere che il tentativo di privatizzare parzialmente o totalmente la Rai sia uno sforzo titanico, tanti sono gli interessi corporativi e partitocratici a sostegno dello status quo. Eppure, come si evidenziava ieri in un editoriale di questo quotidiano, oggi il proposito (di pannelliana memoria) “Fuori i partiti dalla Rai”, che Matteo Renzi affermava nelle prime Leopolde, difficilmente troverebbe opposizioni politiche sostanziali. Ma da qui alla privatizzazione, il passo è lunghissimo, perché la retorica della riformabilità della Rai – e in una sua magica trasformazione in una Bbc italiana – è ancora capace di illudere buona parte dell’opinione pubblica.

 

Nonostante la netta avversione al canone e l’indignazione per gli stipendi dei dirigenti di Viale Mazzini, c’è un’allergia all’idea che la Rai possa essere collocata sul mercato e venduta a un investitore privato, italiano o straniero che sia. Il mantra del servizio pubblico (cosa è?), il diritto percepito e rivendicato di tanti italiani a vedere in chiaro Olimpiadi, Mondiali ed Europei di calcio, la difesa di una terzietà che non esiste e che mai esisterà: se non supereremo questi pregiudizi, la Rai avrà gioco facile a sopravvivere a chiunque governi. C’è riuscita Ert in Grecia, figuriamoci la Rai. In verità, ogni anno che passa è un anno sprecato. Col passare del tempo mutano i paradigmi tecnologici e i costumi e la Rai fa strutturalmente fatica a inseguire un mercato di cui non fa parte, perché un’azienda finanziata con i soldi dei contribuenti non risponde a incentivi di mercato. Senza una presa di coraggio, tra nemmeno troppo tempo ci potremmo trovare a gestire la crisi della Rai come fosse una novella Alitalia, costretta a essere svenduta perché nessuno si era assunto la responsabilità di venderla, quando si poteva. I primi a rendersi conto di questo rischio dovrebbero essere i giornalisti e gli autori di “mamma Rai”, che più di tutti avrebbero interesse a essere nei prossimi anni dipendenti di un’azienda sana, magari più piccola e leggera, e non passeggeri di un transatlantico alla deriva.

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