Beppe Sala (foto LaPresse)

Dall'Expo a Palazzo Marino

Come cambiare Milano tenendo insieme sinistra e città. Parla Beppe Sala

Maurizio Crippa
Pragmatismo, voce milanese del verbo renzista. Il controllo pubblico di A2A e Sea, le risorse da trovare. Le periferie

Milano. “Mi troverò più a mio agio nel fare, se diventerò sindaco, che non a parlare di programmi. Questa è la fase in cui chiunque dice la sua”. Uomo del fare, così si sente e vuole rimanere. Nella camicia bianca che è ormai il suo brand, nella sede del suo comitato (molti volontari, lo staff, una donna con un bambino in braccio). Beppe Sala trasmette di sé un’idea consapevole. E’ consapevole che la sua candidatura a sindaco di Milano da parte del Pd, regolarmente consacrata dal rito delle primarie, vuole essere un segnale alla città, ma anche alla sinistra in generale. Non soltanto lo sfruttamento d’immagine di Mr. Expo, ma l’idea di una sinistra che non ha paura della managerialità e della cultura d’impresa. Adatta per una Milano tornata in pieno nella corsa dell’internazionalizzazione: finanza, ricerca, nuove economie, e spinta dai dati di incremento del turismo post Expo che la pongono ai vertici italiani e prima di Parigi, Vienna, Mosca e Pechino. Beppe Sala è consapevole anche dei risvolti politici, ma sta costruendo la sua campagna e la sua immagine sull’autonomia, che è un pregio ambrosiano, marcando le specificità. E badando a unire.

 

La regola con Beppe Sala è che si comincia sempre dal concreto. “E’ quando si parte con le cose da fare che devono venire fuori le capacità di convincere. Ascolti i dibattiti, senti il disaccordo, ma è molto apparente. Poi si arriva al concreto, alla città che chiama con i suoi bisogni, e bisogna rispondere”. Come per esempio sulle periferie, uno dei suoi temi preferiti – ma anche di Stefano Parisi: tutti sanno che Milano per ripartire deve agganciare alla locomotiva tutti i vagoni. Sala dice: “Non abbiamo bisogno del più bravo per individuare il problema, ma il più bravo a risolverlo. C’è il patrimonio immobiliare da recuperare, c’è un deficit di sicurezza, lo sanno tutti. Io ci aggiungo la socialità: se gli porti vita, a quei cittadini, poi è più facile gestire le situazioni. Da qui l’idea di fare una campagna diversa, lavorando sui singoli quartieri. Non con le promesse alte, generali, che poi è facile non realizzare. Ma promettere un paio di interventi veri, lì. Farli”. Rimanendo al concreto: “Per realizzare gli interventi devi reperire le risorse. La differenza la fanno non le idee, ma decidere come si otterranno. E allora: io sono lontano dal dire che bisogna vendere A2A e Sea (le partecipate dell’energia e degli aeroporti, uno dei dossier più caldi nella politica economica milanese, ndr). Sono contrario a vendere, ma a favore di una parziale disponibilità sul mercato: ma si deve rimanere in maggioranza”. E su due grandi partite economiche, ecco fatto: pubblico-privato, con un ruolo guida del pubblico.

 

Il metodo del pragmatismo è la bussola che guida il candidato anche in politica. Sa benissimo che un punto su cui gli avversari martelleranno è la domanda: come farà a tenere insieme il suo variegato schieramento? Respinge al mittente: “Tenere insieme diverse anime, che non nego ci siano, attraverso le cose da fare e le scelte. Del resto, non mi pare che dall’altra parte siano molto più uniti”. Ma non finirà per essere troppo condizionato dalla componente arancione, insomma la maledizione di tutte le sinistre riformiste? “Ritorniamo un attimo alle primarie – dice – Francesca Balzani è stata sostenuta da tre dei candidati alle primarie per le scorse elezioni, quelle che poi scelsero Pisapia. Insieme come l’altra volta, quei voti avrebbero vinto. Che invece abbia vinto io, significa una cosa: che anche l’elettorato di sinistra è cambiato, in cinque anni. Ha capito certe scelte, certi cambiamenti”. Sala è consapevole di interpretare la società che nei mesi scorsi ha animato gli “Stati generali di Milano” voluti dal Pd, la Leopolda milanese: “Credo sia oggettivo che il Pd e la base che mi sostiene oggi siano la parte politica in grado di intercettare meglio la città, le sue esigenze, le sue molte sfaccettature. E’ il centrodestra che oggi è meno in grado di parlare con la sua stessa base sociale e un mondo che ha esigenze diverse”.

 

Lo scenario, per Beppe Sala, è semplice: “Credo che questa città sia più rassicurata dalla prospettiva di avere un partito di maggioranza come il Pd, che non la Lega di Salvini partito di maggioranza”. Una città cambiata, avanguardia di un’Italia che sta cambiando. “Prendiamo atto che una certa Milano non c’è più. Un tempo c’era la finanza di Mediobanca, le grandi famiglie, due o tre immobiliaristi: guardavi loro e capivi dove andava l’economia. Oggi ci sono tanti mondi, prenda solo l’immobiliare e i grandi investimenti che arrivano dall’estero. Poi ci sono livelli di interessi, anche sociali, molto meno decifrabili, devi saper parlare a mondi diversi. E la sinistra lo sta facendo meglio della destra. Io credo di portare una esperienza di dialogo con i giovani imprenditori, i territori, il mondo che ha generato Expo”.

 

Ritorno al concreto. Le altre due grandi partite della città futura sono gli investimenti pubblici-privati, il vero traino economico: il dopo-Expo e gli ex scali ferroviari, cioè la riqualificazione urbana più vasta in programma oggi in Europa. Sono due temi su cui la sinistra à la Pisapia ha mostrato sempre più timori che voglia di innovare. La domanda naturale è come farà Sala a gestire dossier così pesanti dovendo prima di tutto convincere i suoi: “Non bisogna avere paura. Le operazioni si possono fare, ma virtuose”. A chi teme che il dopo Expo sarà gestito tutto da Matteo Renzi, penalizzando le istituzioni cittadine, risponde: “Non dimentichiamo che per Expo 2015 il 60 per cento dei fondi è giunto dal governo. Se qualcuno sogna di fare un post Expo senza un intervento del governo, si accomodi… e comunque so che le università e il mondo scientifico della città sono stati coinvolti e partecipano al progetto. Senza l’impegno del governo lo Human Technopole e il campus universitario si arenano. Se uno va a vedere cosa succede all’estero, a Manchester ad esempio, sulle grandi opere e le innovazioni sono tutti soldi che arrivano dai governi, non è che siamo anomali qui”. Il caso degli scali è un fallimento della giunta Pisapia, ed è molto simbolico delle due sinistre che Sala si propone di tenere insieme. In soldoni, i dubbi di Balzani e amici erano: troppo cemento. Sala è chiaro: “Per me bisogna ripartire dal piano che era stato fatto, con poche modifiche. Non è una gran cementificazione, non la penso proprio così”.

 

E riecco la politica, due idee di sinistra e di città. Non ha paura che il voto sarà anche un referendum sul modello Renzi? “A me non sfugge che la partita di Milano sia importante anche per gli equilibri nazionali e interni al Pd. Ma non mi faccio condizionare. Porto il mio modo di vedere. Temo, più che auspicarlo, che si faccia un referendum su Renzi, perché non mi ci troverei. Se alcune cose che sto facendo sono in consonanza a un certo corso mi va bene, non lo nego e ne sono parte. Ma rivendico per prima cosa la mia impostazione, il mio bagaglio di esperienze. Dopo di che, lo so che la sinistra ha tante anime. Ma so che buona parte della sinistra oggi condivide la cultura che mi ha fatto vincere le primarie”. E’ anche una battaglia simbolica. Ad esempio, tutti dicono che lui e Parisi si somigliano troppo. Si conoscono, si stimano. Ma: “Parisi ha dietro una destra vecchia, che riporta a un mondo che non c’è più. Mi fido che i milanesi lo sapranno riconoscere”. Partite politiche anche diverse: “Parisi ha un vuoto tutto da riempire. Se lui, come penso, ha in mente anche un percorso di federatore di un centrodestra, è legittimo che lui lo faccia, non è sbagliato. Io se vinco, faccio solo il sindaco di Milano per cinque o dieci anni. La sinistra non è così tanto in divenire come la destra, non ha bisogno di un salvatore”. Il piano per le moschee è un altro grande obiettivo mancato di Pisapia. E sarà cruciale nella campagna elettorale: “Sono radicalmente per il sì. I luoghi di culto vanno fatti, per due motivi: la percentuale di popolazione che deve essere libera di pregare, e l’occasione per controllare meglio quei mondi. Dopo di che, capisco che i cittadini possano avere dei timori, ma non si può ridurla a ‘sono nemici’, è più complesso. E poi l’alternativa qual è? Gli diciamo pregate sul marciapiede? No, io sono per la concretezza: quante moschee? Quanto grandi? Cosa possiamo negoziare sul loro controllo?”. Uomo del fare.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"