Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti (foto LaPresse)

Passeggiate romane

Tutte le mosse e le contromosse della minoranza Pd per ottenere la segreteria

Redazione
Il congresso anticipato del Pd per prendere le chiavi del partito, se le elezioni dovessero andare male

E’ il nuovo fronte di battaglia della minoranza Pd. E non si tratta della legge di Stabilità su cui, comunque, gli oppositori interni di Matteo Renzi hanno intenzione di dare del filo da torcere al presidente del Consiglio. No, è lo stato del partito il nuovo fronte dei vietnamiti “democrat”. La strategia è semplice. Fin troppo. Si gioca a perdere alle prossime elezioni amministrative. Non solo per fare uno sgarbo al premier e far vedere a tutti che non è invincibile. Lo scopo, piuttosto, è quello di dimostrare che il partito non c’è più, che Renzi lo ha ridotto al lumicino e che per ottenere dei successi elettorali è più che mai necessario rivitalizzarlo e rimetterlo in piedi.

 

Le chiavi del partito. Come si fa? E’ ovvio: dandogli un segretario che faccia il suo mestiere a tempo pieno e non un leader part-time che,  facendo il presidente del Consiglio, si può occupare del Pd poco o niente. E’ per questa ragione, e non certo per dare una mano a Renzi, che Bersani ha sconfessato i fuoriusciti. Perché rendono più debole la sinistra interna che vuole riprendersi, per usare un’espressione di Massimo D’Alema, le chiavi del partito.

 

Obiettivo amministrative. E’ chiaro che se un D’Attorre e un Fassina (entrambi bersaniani) se ne vanno, per il capo della minoranza c’è un problema, perché si assottigliano le forze in campo e perché si rende meno credibile l’opposizione a Renzi. E invece ci vogliono tutte le energie necessarie per tentare l’ultimo assalto al premier segretario. Dunque, lo schema è stato deciso: le elezioni amministrative vanno male e la minoranza chiede il congresso anticipato nonché il cambiamento di quella clausola (che Bersani modificò) che prevede che il leader è anche il premier (o il candidato premier, naturalmente). Quello che rende complicato lo schemino fino qui riassunto è la mancanza di un leader alternativo. Bersani (e anche D’Alema) aveva pensato a Roberto Speranza. Un giovane, semi-sconosciuto alle cronache nazionali, che avrebbe potuto contendere a Renzi la leadership. Peccato che, con il passar del tempo, i bersaniani abbiano capito che, salvo sorprese, il competitor non poteva essere l’ex capogruppo del Pd alla Camera. Non attirava i consensi degli ex Ds di rito – momentaneamente – renziano, né i giovani turchi.

 

Cosa farà Zingaretti? Perciò la minoranza ha provato a giocare le sue carte sul tavolo della regione: Nicola Zingaretti in fondo è un’espressione della ditta ed è l’uomo che ha conquistato la provincia di Roma nel giorno stesso in cui il Pd regalava il comune a Gianni Alemanno. Ma il presidente della regione Lazio, che è uomo estremamente prudente, si è rifiutato di farsi mettere in testa il cappello da qualcuno. Dunque Zingaretti dice di no a Bersani e ai tanti che volevano candidarlo al congresso del Pd. Uno stop momentaneo? “Non me ne frega niente delle stupidaggini che sono state scritte sul mio conto”, è la trincea, per il momento invalicabile, del presidente della regione. Insomma, nonostante le profferte e le lusinghe, Zingaretti non si muove.

 

[**Video_box_2**]Se Zingaretti la pensa così, vuol dire che qualche problema c’è. Il governatore infatti non ritiene che la ditta sia in grado di riprendersi le chiavi e preferisce restare defilato. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, invece, ci sta pensando sul serio. Bersani, nonostante i giovani turchi siano in maggioranza, è disposto a dargli il via libera da parte della minoranza, e gli ex Ds fremono. Ma il Guardasigilli si rende conto che rischia di giocarsi la partita della vita. Andare a uno scontro diretto con Renzi potrebbe abbreviare la sua carriera politica anzitempo. Perciò dice e non dice, dichiara e smentisce o precisa. Non ha nessuna voglia di finire nel calderone dei cattivi prima ancora che ci arrivi il suo compagno di corrente Matteo Orfini, al quale il presidente del Consiglio non ha ancora perdonato la gestione del caso Marino.