(foto Ansa)

Piccola posta

Ciò che teme di più Evgenia Berkovich è di aver paura

Adriano Sofri

La difesa in versi della poetessa che criticò la guerra all'Ucraina e aspetta da maggio il processo

Forse avete saputo qualcosa di Evgenia (Zhenya) Berkovich. Che è nata a Leningrado, oggi San Pietroburgo, nel 1985. Che è una scrittrice e poetessa, e soprattutto una donna di teatro. Che viene da una famiglia ebrea, un bisnonno giustiziato nel 1938 per “cospirazione”, i suoi nonni e i suoi genitori sono stati illustri dissidenti nell’Unione Sovietica – sua nonna, Nina Katerli, strenua combattente per i diritti umani, è morta a 90 anni il 20 novembre scorso. Le poesie di Zhenya contro la guerra, contro l’abuso della gloria dei veterani della Grande guerra patriottica per l’aggressione all’Ucraina, contro la distruzione metodica del Teatro di Mariupol, hanno avuto una grande risonanza.


Al momento dell’invasione dell’Ucraina, Zhenya manifestò per strada, a Mosca, la sua opposizione, e fu per questo detenuta per alcuni giorni. Lo scorso 5 maggio è stata arrestata, insieme a una sua amica e collaboratrice, Svetlana Petriichuk, dopo che un sedicente Movimento di liberazione nazionale della Russia, di estrema destra, l’ha denunciata per apologia del terrorismo. Accompagnata dall’addebito di “femminismo radicale”. (“Beh, sì, sono femminista. E’ la mia posizione consapevole, motivata… Alla fine della giornata, sono una donna. Ma ci sono una quantità di circostanze nelle quali non ho bisogno di rivendicarlo. E’ importante, ma non penso che esiga di battersi all’ultimo sangue dalla mattina alla sera. Ho il diritto di chiamarmi nel modo che più mi piace”).

Da allora è in carcere, senza processo, perché la sua detenzione preventiva viene prolungata di due mesi in due mesi. L’altroieri, il 9 gennaio, una nuova udienza, dalla quale si aspettava una decisione sulla scarcerazione, ha rinnovato la detenzione fino al prossimo 10 marzo. Il pretesto all’imputazione, per un reato che prevede la pena di 7 anni, è in uno spettacolo col testo di Petriichuk allestito da Berkovich nel 2020, che metteva in scena donne russe che si innamoravano di militanti dell’Isis e li raggiungevano o tentavano di raggiungerli in Siria, e i processi che affrontavano al ritorno in patria. Lungi dal sollevare sospetti di compiacenza col terrorismo, lo spettacolo, che alludeva anche a un frustrato e deviato desiderio d’amore delle donne russe, aveva ricevuto due “Maschere d’oro”, i più prestigiosi premi della critica, il patrocinio del ministero della Cultura, ed era stato replicato in circostanze ufficiali, per esempio in alcuni penitenziari. A inclinare così brutalmente l’interpretazione era stata naturalmente l’opposizione alla guerra. Berkovich, per giunta, aveva adottato due ragazze, una delle quali è ancora minorenne, dopo che una loro precedente adozione era disgraziatamente venuta meno, e si è prodigata nell’assistenza agli orfanotrofi, spingendosi, il delitto più oltraggioso, a promuovere l’adozione di minori ucraini con il proposito di riportarli un giorno nel loro paese.
Berkovich ha una storia famigliare che l’ha preparata al ritorno di stalinismo che attraversa la Russia dell’operazione speciale. E un curriculum teatrale che anticipa la sua vicenda processuale.

Una delle sue prime prove aveva messo in scena l’adattamento dell’“Allodola” di Jean Anouilh, incentrata sul processo a Giovanna d’Arco. Una sua successiva regia, nel 2012, riguardò il processo famoso al giovane Joseph Brodsky che, interrogato sul perché non svolgesse un lavoro utile alla collettività rispondeva caparbiamente di scrivere poesie, e di ritenere che il suo datore di lavoro fosse Dio. Del resto, i processi sono spesso una prepotente e parodistica rappresentazione teatrale. Così, quando è toccato a lei parlare davanti a una corte, Berkovich l’ha fatto mettendo in versi la propria difesa, senza alcun compiacimento retorico né intento di provocazione, denunciando l’inconsistenza e l’arbitrio della propria persecuzione.
Della sua storia hanno scritto in molti, ed eloquentemente il suo maestro, il celebre regista Kirill Serebrennikov, oggi fuoruscito dalla Russia, che le ha rivolto una vera dichiarazione di amore e di ammirazione (Berkovich si rifiuta di abbandonare il paese). Ne ha scritto Masha Gessen per il New Yorker, e trovate il ritratto migliore sulla edizione europea, in inglese, della Novaya Gazeta in esilio, lo scorso 5 novembre: “La cosa che temo di più è di avere paura”.

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