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L'attentato alla sinagoga di Roma del 1982, momento cruciale che incrinò la simpatia socialista per Israele

Adriano Sofri

L’inversione polemica dagli ebrei indifesi agli ebrei massacratori aveva fatto la sua comparsa dal 1948, con la strage del villaggio di Deir Yassin compiuta da milizie della destra sionista. Fu dopo i fatti di quell'ottobre che tutto accelerò

Torniamo su quei giorni del 1982 a Roma (ne ha riscritto qui Pigi Battista). Il 9 ottobre era sabato, e la comunità ebraica celebrava, nella festività di Sheminì Atzeret, la benedizione dei bambini. Poco prima di mezzogiorno, contro la folla che usciva dal Tempio Maggiore, due miliziani della fazione palestinese di Abu Nidal lanciarono bombe a mano e spararono raffiche di mitra. Ci furono 39 feriti, tre erano bambini e 18 donne. Un altro bambino di due anni, Stefano Gaj Tachè, morì un’ora dopo. Il suo fratellino di due anni maggiore, Gadiel, fu gravemente ferito, e feriti i genitori. 

Attorno alla sinagoga si sfogò dolore e collera, contro l’assenza delle forze dell’ordine, contro i notabili politici, contro i giornalisti, ritenuti in blocco complici dell’odio antiebraico che era montato nei mesi precedenti. Il 25 giugno, durante un corteo della Cgil qualcuno aveva depositato una bara davanti alla sinagoga, sotto la lapide per gli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine, senza che il gesto sollevasse troppa deplorazione. Luciano Lama, segretario della Cgil, rispose alla protesta del rabbino capo Toaff nominando “l’ipotesi di un vero e proprio genocidio” attuato da Israele in Libano. 
In quel giugno c’era stata l’invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano, che aveva preso a pretesto l’attentato (non mortale) all’ambasciatore d’Israele a Londra, compiuto da seguaci della stessa banda di Abu Nidal, in rotta con l’Olp di Arafat. L’intenzione del governo di Begin e Sharon era, anche allora, di estirpare il terrorismo dell’Olp. E tra il 16 e il 18 settembre, alla periferia di Beirut, nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, i miliziani della Falange cristiana libanese avevano perpetrato una orrenda carneficina, senza che le forze israeliane muovessero un dito per impedirlo – o, secondo altre fonti, con una loro collaborazione. A Tel Aviv si svolse una manifestazione di protesta di 400 mila persone, il 25 settembre, ispirata da Shalom Akhshav, Pace Adesso (fondata nel 1978). Nel mondo, la commozione e lo sdegno anti israeliani raggiunsero un culmine – qualcosa di paragonabile, fatte le proporzioni, alla reazione di oggi alla distruzione di Gaza, con due grosse differenze: che allora Israele non aveva subìto un’aggressione orribile come quella di Hamas del 7 ottobre, e che lo scempio di Sabra e Shatila era stato materialmente attuato dai cristiani maroniti di Bashir Gemayel, alleato di Israele e assassinato poco prima in un attentato siriano-palestinese (quello di “Valzer con Bashir”).

Nel settembre il capo dell’Olp, Arafat, a Roma per l’Unione interparlamentare presieduta da Andreotti, era stato ricevuto con onori da capo di stato dal sindaco comunista, Vetere, dal presidente Pertini, dal Papa Giovanni Paolo II, dai segretari di Pci, Psi e Dc e dei tre sindacati. Cosicché nel pomeriggio angoscioso di quel 9 ottobre i (pochi) visitatori illustri alla sinagoga, perfino quelli più vicini a Israele e alla comunità, Spadolini, Pannella, vennero accolti da una folla duramente ostile. Il rabbino capo Elio Toaff dovette dire a Pertini che “il malumore della folla era tale da sconsigliare la sua venuta nel quartiere ebraico”. 

Quel 1982 fu davvero un anno cruciale. Lo scivolamento da una simpatia “socialista” per l’Israele del kibbutz – non pochi giovani anche non ebrei erano partiti a cercarvi la propria iniziazione solidale – a un atteggiamento filoarabo dei governi e filopalestinese della sinistra, era in corso da tempo. E l’inversione polemica dagli ebrei indifesi agli ebrei massacratori aveva fatto la sua comparsa dal 1948, con la strage del villaggio di Deir Yassin compiuta da milizie della destra sionista. Nel 1967 la guerra aveva archiviato l’immagine del Davide contro Golia, e si era conclusa con un enorme acquisto di territori per Israele: e la propaganda sovietica aveva fomentato quella retorica. Nel 1975 l’Assemblea dell’Onu aveva votato equiparando il sionismo al razzismo. L’associazione fra sionismo e colonialismo, e Palestina (e Vietnam) e anti imperialismo, aveva già sedotto una parte della sinistra comunista e per intero la sinistra extraparlamentare (“Visitate Israele e le sue piramidi”, era un motto di spirito di noi pisani nel 1967). Nel suo primo anno, il 1972, il quotidiano di LC cedeva all’equazione Israele-nazifascismo. Ora la guerra del Libano apparve, a differenza di quelle del 1967 e del 1973, una guerra d’aggressione di Israele. La “reductio ad Hitlerum” era in vigore anche tra i capi israeliani, e Begin paragonava Arafat a Hitler (replicò Amos Oz: “Signor primo ministro, Hitler è già morto!”). Ora il nesso intimo fra ebrei vittime e nazismo persecutore si rovesciò nell’immagine cattivante delle “vittime che si fanno carnefici”.

Nell’estate del 1982, diventò moneta corrente anche fra i principali leader europei. Sandro Pertini paragonò ripetutamente la sorte dei palestinesi sotto Israele a quella storica degli ebrei.

L’imputazione a Israele del “genocidio” diventò proverbiale nella stampa di sinistra, in quella cattolica e anche in quella moderata e “istituzionale”: Beirut come Varsavia, Begin e Sharon come i liquidatori dei ghetti del centro Europa, il “nazisionismo”. Impressiona come i dati e i linguaggi di quella discussione sembrano anticipare quella attuale. Un socialista e già filoisraeliano come Enriques Agnoletti, direttore del Ponte, paragonò il bombardamento di Beirut, per difetto, alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine. “I poliziotti uccisi erano 32: un po’ più di 10 per uno. Nel Libano dopo che era stato ferito un diplomatico israeliano sono state immediatamente uccise, per rappresaglia, con bombardamenti aerei, più di 320 persone comprese donne e bambini: 320 contro uno. Confronti odiosi? Purtroppo no”. Padre Balducci scrisse che “il popolo di Mauthausen e di Auschwitz ha prodotto dei leader che perfino nella fisionomia richiamano i nazisti impiccati a Norimberga”. 

Torniamo a Roma, al 12 ottobre, il funerale. Toaff e le personalità più in vista, come Bruno e Tullia Zevi, presero la responsabilità impopolare di accogliere il presidente Pertini e altre cariche dello stato. Ma la Comunità aveva chiesto ai non ebrei di non partecipare alla parte del corteo che risalì col piccolo Tachè dall’ospedale sull’Isola Tiberina al Lungotevere. Rispettavo quel proposito ma non lo condividevo, e mi unii a quel tratto di corteo. Nessuno mi disse niente. Camminavo accanto ad Anna Rossi Doria, che aveva replicato a posizioni di sinistra che auspicavano il superamento di una peculiarità ebraica, invitandole ad accettare “la differenza fra chi è ebreo e chi non lo è” – nemmeno lei mi disse niente. Davanti alla sinagoga c’era molta gente (10 mila, 20 mila, scrissero i giornali), una rada presenza della sinistra ufficiale, molti che erano stati di Lotta Continua, da anni sciolta e sopravvissuta alternamente come giornale. Erano cambiate molte cose, per tutti. 

Sono trascorsi 41 anni, conto che anche chi non era nato abbia conosciuto quell’avvenimento. Rai 1 ha trasmesso il nuovo documentario prodotto da Davide Parenzo, scritto da Giancarlo De Cataldo e Davide Borraccetti (anche regista), con la colonna sonora di Nicola Piovani e un brano inedito di Ennio Morricone. Un documentario prodotto dall’Associazione intitolata a quel 9 ottobre, “Era un giorno di festa”, era stato trasmesso un anno fa. Fra le molte testimonianze, raccolgono quella del fratello di Stefano, Gadiel, che solo l’anno scorso aveva pubblicato, per la Giuntina, il suo libro, “Il silenzio che urla”. Nel 2013 era uscito il libro di Arturo Marzano e Guri Schwarz, “Attentato alla sinagoga”, Viella ed., che ho qui ricalcato, e cui rimando.

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