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La colpa di essere ebrei

Pierluigi Battista

Vittime diventate carnefici. Ieri apolidi erranti pronti a insinuarsi nei popoli sani per succhiarne le ricchezze, oggi troppo radicati nel loro territorio. E le loro guerre? Sempre le più crudeli. Antisionismo e antisemitismo: viaggio nel grande pregiudizio che non muore

Il 9 ottobre del 1982 un bambino italiano di due anni, di nome Stefano Gaj Taché, viene ucciso da una granata e dalle sventagliate di mitra di un commando composto da una decina di terroristi mediorientali. Un bambino italiano. Un bambino italiano ed ebreo. Ma lo status ufficiale nell’elenco delle vittime del terrorismo italiano gli verrà riconosciuto soltanto trent’anni dopo, nel 2012, grazie all’impegno del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con la sua famiglia Stefano stava uscendo insieme alla folla di fedeli dalla Sinagoga Maggiore di Roma, dove veniva celebrato l’ultimo giorno della festa di Sukkot. Un bambino ebreo: dilaniato nel pieno centro della capitale dalle armi dell’odio politico e antisemita. Un bambino ebreo alla fine di una cerimonia ebraica in un tempio ebraico. Non un aereo israeliano. Non un ufficio commerciale israeliano. Non un consolato israeliano. Un bambino ebreo davanti a un tempio ebraico. La saldatura tra odio per lo stato di Israele e odio per gli ebrei, tra antisionismo e antisemitismo, si mostrava in quel cruento frangente compiuta, assoluta, senza residui. E questo potevamo saperlo. Tutti avrebbero potuto saperlo, se solo avessero voluto vedere.

E invece: niente raccapriccio, niente vergogna. Sull’onda delle proteste per l’invasione israeliana del Libano furono colpiti in Europa, a Parigi, ad Anversa, a Vienna, a Roma, cimiteri ebraici, scuole ebraiche, luoghi di culto ebraici. Pochi giorni prima dell’assassinio del piccolo Stefano, sui muri di una piccola sinagoga di via Garfagnana, a Roma, un gruppo dell’estrema sinistra romana aveva affisso uno striscione con su scritto: “Bruceremo i covi sionisti”. Una sinagoga definita “covo sionista”. Sì, ci fu reazione nella stampa italiana, molta indignazione, molta mobilitazione morale. Per l’assassinio di un bambino ebreo? No, per le gesta infami degli ebrei e di Israele che del resto erano la causa di tutto. Non mi va di far nomi, molte delle persone menzionate sono passate a miglior vita, e non si addice al mio carattere il processo postumo. Ma nei migliori e più autorevoli e più democratici giornali italiani si chiedeva a Davide di “discolparsi” (testuale) con un necessario e salvifico mea culpa. Si scrisse, inchiodando gli ebrei a una maledizione biblica, di un “popolo eletto” anche nella crudeltà e dell’intrinseca “violenza” dell’ebraismo del Vecchio Testamento in contrasto con la mitezza del cristianesimo. Si scrisse, basta andare negli archivi, di un popolo ebraico che riscopriva nella Bibbia la sua identità mai sepolta, malgrado le indicibili sofferenze patite, di “razza dominatrice” (“razza”, avete letto bene). Si scrisse di un “Dio vendicativo degli eserciti” che aveva preso il sopravvento su quello misericordioso. Successe che una rivista colta e raffinata aveva deciso di esibire in copertina un disegno che raffigurava, inestricabilmente intrecciate, la croce uncinata e la stella di David: gli ebrei di oggi come i nazisti di ieri, le vittime di ieri come i carnefici di oggi, una cialtronata culturale, più ancora che un sordido luogo comune, che nel tempo, fino ai nostri giorni, ha trovato numerosi e sventurati adepti.

Successe inoltre una cosa ancora più brutta. Successe in quei giorni che durante un corteo sindacale, al grido di “Ebrei ai forni! Morte a Israele!”, fu deposta una bara davanti alla Sinagoga di Roma, vicinissimo alle lapidi degli ebrei deportati e sterminati nel rastrellamento del 16 ottobre del 1943 (quello di cui si commemora con aria contrita l’ottantesimo anniversario). Luciano Lama, un uomo retto e un ammirevole dirigente sindacale, ne rabbrividì, sconvolto. Ma inconsapevolmente la sua lettera di rammarico al rabbino Toaff aggravò l’incidente, zeppa com’era di lapsus rivelatori: “Neppure la guerra crudele scatenata dalle armate israeliane contro un popolo che rivendica il suo diritto, sacrosanto come il vostro, a una patria…”. Come sarebbe: il “vostro”? Ma gli ebrei italiani non avevano già una “patria”? Non erano già ebrei italiani, come il piccolo Stefano e il rabbino Toaff? Bisognava trattarli con il “voi” anziché con il “noi”, il “vostro” anziché con il nostro?

“Guerra crudele”. Che poi la guerra è sempre crudele. La guerra che coinvolge i civili, poi, è ancora più crudele. Ma chissà perché la guerra più crudele di tutte è sempre quella di Israele. Sempre. Quando gli aerei e gli elicotteri militari della Siria del macellaio Assad e della Russia di Putin uccidevano un numero elevatissimo di civili a Ghouta Est, ad Aleppo, ad Homs, a Darà, quanti bambini saranno stati sepolti sotto le bombe e quante strutture sanitarie sono state devastate, se si considera che soltanto nel 2015 ne erano state distrutte 150? Abbiamo detto qualcosa, le piazze si sono mosse, l’indignazione globale si è accesa come un incendio etico? No, in questo caso la “guerra crudele” non era di Israele (e nemmeno amerikana) e poi ci faceva comodo che insieme alle centinaia di migliaia di civili siriani massacrati si usassero metodi spicci contro l’Isis. 

E’ come se il cervello, quando si tratta di Israele e degli ebrei, rispondesse a due logiche parallele, una vivace e reattiva quando se ne pensa male, l’altra opaca e sonnolenta quando se ne pensa bene

Nessun assalto e nemmeno una fiaccolata (soltanto i soliti Radicali) davanti all’ambasciata cinese quando a Pechino hanno proceduto e procedono allo “spostamento” coatto (insomma, la deportazione) di mezzo milione e l’uccisione di alcune migliaia di uiguri (vecchi e bambini), l’etnia turcofona di religione islamica della regione dello Xinjiang: e pensare che dei crudeli campi di concentramento, dove tra l’altro le donne sono costrette alla sterilizzazione per non perpetuare la razza maledetta, esiste persino la documentazione fotografica, ma niente. Le vittime sono islamiche, ma forse i carnefici hanno la stella di David nelle loro insegne? No, e dunque cambiano pagina. A proposito, qualcuno sa che cosa è successo e succede nel Darfur con 400 mila morti accertati e due milioni e mezzo di profughi in fuga dai feroci “janjiawid” (“demoni a cavallo”). No. E comunque non c’è nemmeno in questo caso un’aula universitaria occupata in Italia, e ad Harvard (il luogo della fine dell’Occidente all’orizzonte) è proibito parlare di altre crudeltà che non siano quelle americane ed ebraiche. Pardon, israeliane. Del resto, tutti sanno che cos’è l’orrore assoluto di Sabra e Chatila. Provate invece a chiedere a uno studente della Sapienza o a uno di Harvard che cosa gli trasmette l’espressione Tel-al-Zatar oppure Settembre nero. Furono due massacri di palestinesi. Solo che la colpa non era di Israele, ma rispettivamente della Siria e della Giordania. Per cui, silenzio.

Doppio movimento: enfatizzazione e minimizzazione. Trattamento speciale nei confronti dello stato di Israele, riflettori puntati su ogni nefandezza, un “discolpati” continuo e martellante. E questo è il primo movimento. Poi c’è il secondo, opposto al primo: la minimizzazione, il ridimensionamento, il silenzio omertoso, il far finta di niente quando lo schema vittima/carnefice viene ribaltato. Leon Klinghoffer era un signore americano ed ebreo. Stava su una sedia a rotelle. E fu buttato in mare, lui insieme alla sedia a rotelle, quando i dirottatori palestinesi sequestrarono e dirottarono nel 1985 l’Achille Lauro, una nave italiana. Klinghoffer era in crociera, non stava bombardando campi profughi. Però lo ammazzarono, su una nave italiana, perché era ebreo. In quegli anni si diceva che la battaglia palestinese avesse come sua bandiera l’indipendentismo e il nazionalismo laico e che gli ebrei e l’antisemitismo non c’entrassero niente. E invece, avesse potuto, Klinghoffer avrebbe sostenuto il contrario. L’antisemitismo non c’entra mai, ma Daniel Pearl nel 2002, in Pakistan, in un video girato prima della rituale decapitazione (e dopo torture, anch’esse presumibilmente molto crudeli) fu costretto a dire: “My father is a Jew, my mother is a Jew, I am a Jew”. Nel 2006 rapirono a Parigi un giovane ebreo che si chiamava Ilan Halimi. Durante i 24 giorni di prigionia lo torturarono e mandarono alla madre prove raccapriccianti delle sevizie subite dal figlio. Poi lo arsero vivo e come un sacco di immondizia lo gettarono ancora agonizzante lungo la ferrovia. La polizia francese si disse “scettica” sulla pista antisemita. E dato che la polizia si diceva scettica, anche la stampa solitamente attenta manifestò a tal punto il proprio scetticismo da relegare la notizia nelle brevi di cronaca. Gli ebrei non c’entrano. Non alimentiamo le guerre di religione. Piano con le parole. Casomai, è il “degrado metropolitano”, il disagio sociale e via così. Poi venne celebrato il processo e grande fu lo stupore della stampa solitamente attenta quando il capobanda, prima di concludere il suo discorso con il grido “Allah Akbar”, definì gli ebrei (gli ebrei, dunque gli israeliani, e viceversa) “assassini di musulmani su scala planetaria, indottrinatori, manipolatori, nemici da combattere per il bene dell’umanità”. Strano. Strano soprattutto che nessuno di noi volesse guardare la realtà per quel che era.

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E sempre sulla dismisura e sul “trattamento speciale” riservato a Israele. Dismisura su un popolo, che numericamente costituisce una piccola quantità, su una limitatissima area geografica, nel gran mare tumultuoso del mondo arabo. Una volta ho chiesto a un amico colto e sensibile, “antisionista” impenitente: secondo te sarebbe stato giusto che chi combatteva per l’indipendenza dell’India dall’Impero britannico avesse avuto come meta finale l’annientamento di Londra e la deportazione dei suoi abitanti? Risposta: ma certamente no. E i nazionalisti algerini che volevano liberare la loro patria dai francesi, reclamavano forse lo smantellamento della Tour Eiffel e del Louvre? Ma certamente no. E i baschi, sarebbero stati giusti se avessero avuto nel loro programma non solo l’indipendenza della loro nazione, ma anche la conquista di Madrid manu militari e la via dell’esilio per la popolazione castigliana? Ma certamente no. Ed è giusto che oltre all’indipendenza dello stato palestinese si auspichi a gran voce, sin dal 1947, la sottomissione di Tel Aviv e gli ebrei “ricacciati in mare”, secondo la vulgata nasseriana? Beh, bisogna contestualizzare… Ecco, bisogna contestualizzare. Ma occorre soprattutto contestualizzare questa emiplegia mentale, come la chiamava il grande Jorge Semprún, come se il cervello, quando si tratta di Israele e degli ebrei, rispondesse a due logiche parallele, una vivace, sveglia e reattiva quando se ne pensa male, l’altra opaca, sonnolenta, offuscata, quando se ne pensa bene.

So di cosa sto parlando.

In quel mare infetto ho nuotato anche io quando ero un adolescente ignorante come quelli che sfilano con la kefiah il giorno dopo la carneficina di ebrei compiuta da Hamas. Nel 1972 un commando palestinese, durante le Olimpiadi di Monaco, irruppe nei dormitori dove erano ospiti gli atleti israeliani, facendone strage. Ero così furiosamente trascinato nel mio impeto dottrinario che quasi ero arrivato a considerare Yasser Arafat un tiepido moderato. Invece bisognava decidere chi fosse il leader più ammirevole, se Nayef Hawatmeh o George Habbash, che capeggiavano due componenti superoltranziste in rotta con la dirigenza “moderata” e compromissoria di Arafat. Ero molto scemo, e mi fa male riconoscere in ciò che ero io millanta anni fa la stessa ossessione idiota sui volti di chi oggi continua a non capire che la battaglia di Israele è per la sua sopravvivenza. E se qualcuno, allora, mi avesse dato dell’antisemita, mi sarei mortalmente offeso. Non sapevo ancora, tuttavia, che gli stereotipi lavorano nel profondo e che quell’accusa non sarebbe stata del tutto ingiustificata.

Poi certo, si piange per “Schindler’s List”, si lacrima fino all’esaurimento per “La vita è bella”, ma abbiamo tutti una reazione distratta quando per caso veniamo casualmente a conoscenza che nei paesi arabi ci sono fiction tv ricalcate sugli appassionanti “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Oppure che nella tv di Gaza si trasmette in continuazione la seguente predica: “‘Oh sheikh, ho quattordici anni, ancora quattro anni e poi mi farò saltare tra gli ebrei’. E gli dissi: ‘Oh, ragazzo, che Allah ti faccia meritare il martirio’”. A proposito: Hamas vieta tassativamente la pubblicazione di brani tratti dal Diario di Anna Frank per non diffondere “l’infezione della campagna sionista”. Anna Frank, nascosta in una soffitta di Amsterdam, come i bambini raggiunti dall’indicibile terrore nel cuore di un kibbutz, il 7 ottobre del 2023.

 L’attesa, raccontata da Amos Oz, della risoluzione Onu sui due stati per due popoli. Revisionisti, antisionisti, negazionisti: si trova di tutto nelle librerie israeliane. I tic dell’occidentale  alla moda tra gli inviati dei media internazionali

E nonostante questo, stupisce, non smette di stupire la nostra assoluta cecità, il nostro compulsivo doppio standard. Questo non voler capire che ce l’hanno con gli ebrei. Perché se avessero voglia di capire (diamo una chance alla buona fede) dovrebbero dedurne che in questo preciso momento noi restiamo indifferenti di fronte ai pogrom contro gli ebrei. E poi come facciamo, il prossimo 27 gennaio, a celebrare il “Giorno della memoria”?

Dicono che c’è stata un’epoca in cui l’indipendentismo arabo-palestinese, rivendicando la battaglia per rientrare in possesso di una terra usurpata dagli odiati sionisti, non aveva niente a che vedere con l’antiebraismo islamista così sfacciato di oggi. Difficile allora da spiegare come mai nel ‘67, prima di scatenare con Nasser l’offensiva poi perdente contro lo stato di Israele, la radio del Cairo trasmettesse inni, slogan e canzoni in cui si sognava il momento di gettare “gli ebrei in mare” e di “sgozzarli fino all’ultimo”. In quel romanzo che è uno dei monumenti della storia letteraria del Novecento, “Una storia di amore e di tenebra” pubblicato in Italia da Feltrinelli, Amos Oz racconta l’atmosfera che si respirava subito prima che l’Onu votasse la risoluzione – tra l’altro appoggiata pure da Stalin, però questa è un’altra storia – che avrebbe dovuto sancire la coesistenza di due stati per due popoli (due stati per due popoli: non è fantastico? Solo che Israele accettò, gli stati arabi e il notabilato palestinese invece no). Ecco le parole di Amos Oz, pp. 414-415 dell’edizione italiana: “Il segretario generale della Lega araba minacciò gli ebrei che, ‘se avessero tentato di stabilire un’entità sionista, anche soltanto su un piede di terra araba’, allora gli ‘arabi li avrebbero affogati nel loro stesso sangue’ e il medio oriente avrebbe visto scempi ‘al cui confronto i conquistatori mongoli sarebbero impalliditi’. (…) Gli ebrei, aggiunse il predicatore della grande moschea di Giaffa, ‘non sono affatto un popolo e nemmeno una religione propriamente – tutti sanno infatti che il Signore pietoso e misericordioso ha ribrezzo per loro e per questo li ha condannati a essere maledetti e odiati per sempre in tutte le terre della loto dispersione – ; cocciuti che non sono altro, questi giudei, il Profeta ha teso loro una mano, e loro ci hanno sputato sopra. Non per niente i popoli dell’Europa hanno deciso di sbarazzarsi di loro una volta per tutte, e adesso l’Europa sta macchinando per scaraventarli tutti da noi, ma noi, gli arabi, non permetteremo ai popoli dell’Europa di gettarci addosso il loro letame. Noi arabi tratteremo a fil di spada questa congiura satanica per trasformare la Terra santa in Palestina nel bidone della spazzatura per tutte le schifezze del mondo’”. Purtroppo, i nazisti tanto ammirati dal predicatore della moschea di Giaffa non erano riusciti a sbarazzarsi del letame giudeo. Si legge forse Amos Oz nelle università italiane e nell’un tempo prestigiosa università di Harvard?

C’è sempre un dritto e un rovescio, sempre un doppio movimento quando si parla degli ebrei e di Israele. Nell’antisemitismo per così dire classico che va dalla persecuzione di Dreyfus ai falsi Protocolli impacchettati dalla polizia segreta zarista fino all’apocalisse della Shoah, l’ebreo è bollato e linciato come un apolide senza radici che si insinua nei popoli sani e gagliardi per succhiarne le ricchezze ma anche l’anima. Un errante senza territorio. Adesso viene accusato di averne troppo, di territorio. Di aver messo troppe radici, di essere sin troppo patriottico. Senza o con territorio, l’ebreo è sempre troppo qualcosa. Diffidarne è meglio. Come mai? E’ che non si sopporta, secondo me, l’ebreo che dispiega la sua potenza. Un tempo la sua potenza economica, la plutocrazia, il capitale, le banche, l’“usura” che faceva inorridire persino un poeta delicato come Ezra Pound facendogli commettere errori madornali. Oggi è la potenza militare e tecnologica. Non piace il nuovo ebreo forgiato nella battaglia, quello che piaceva al socialista Ben Gurion commosso, spietatamente commosso se così si può dire, dalla lotta eroica del Ghetto di Varsavia più che dagli altri milioni di ebrei che non avevano reagito sui vagoni piombati. Ecco perché ci commuoviamo tutti per “Schindler’s List” e non ci commuoviamo per la sorte di Israele. La vittima, l’ebreo offeso, umiliato, sterminato, artistico, sensibile, ironico, spirituale, quello sì. Quest’altro invece no. Quest’altro è troppo simile al peggio di noi occidentali: arroganti, conquistatori, colonialisti.

Che poi verrebbe da dire che certo, gli israeliani hanno commesso crimini anche in quella da loro stessi definita guerra di indipendenza del 1948, dove 700 mila palestinesi diventarono profughi destinati a restarlo nei paesi arabi in cui per decenni, prima del ‘67, continuarono ad essere ospiti indesiderati, talvolta meritevoli di cruente punizioni. E’ tutto stato studiato. C’è scritto nei libri, della tragedia di Deir Yassin e dei villaggi in cui molti palestinesi morirono per mano israeliana. Ma il particolare curioso è: dove si trovano questi libri così sulfurei? Ecco, è nelle librerie di Tel Aviv e di Gerusalemme che trovereste di tutto: revisionisti, antisionisti, negazionisti. Tutto. Quando si dice che Israele è l’unica democrazia del medio oriente non è solo per retorica o per polemica. Ma perché lì c’è una vita culturale libera ed effervescente. Le università sono luoghi di dissenso. La cinematografia israeliana non sa cosa sia l’autocensura. La letteratura israeliana è una spina nel fianco permanente per l’establishment al potere. I giornali sono l’antenna sensibile di un’opinione pubblica attenta, che ama il conflitto delle idee, come dovrebbe essere nelle democrazie liberali. Le librerie sono zeppe di libri dove puoi trovare anche gli scritti di un grande intellettuale di origine palestinese come Edward Said, fervente antisionista, le cui opinioni dissidenti non sono mai piaciute alle dirigenze dispotiche arabe e palestinesi anche ora che Said è morto. Le librerie dei paesi arabi sono desolatamente vuote e non tollerano il dissenso. Ma per noi è normale che sia così. Non è un problema. Non è stato nemmeno un problema scandaloso quando una volta dal Gay Pride di Madrid furono cacciati via gli omosessuali israeliani. La libertà non è un problema quando a esserne privati sono gli altri, le popolazioni che circondano Israele. I nemici di Israele non sono mai amici della libertà. Mai.

Una volta, erano i mesi successivi alla prima Guerra del Golfo, mi trovavo per lavoro a Gerusalemme, nell’hotel American Colony i cui camerieri, quasi tutti arabi, avevano gioito quando pochi mesi prima i missili Scud di Saddam, poi neutralizzati, stavano per colpire la città, con gli abitanti protetti dai Patriot e muniti di maschere antigas (ma ne morirono asfissiati alcune decine, come ha documentato Giulio Meotti). In quello splendido albergo, con un giardino meraviglioso dove fare colazione e cenare, soggiornavano quasi tutti gli inviati dei media internazionali, e occidentali in particolare. Ascoltarli sembrava una scena satirica dell’“Inviato speciale”, il formidabile romanzo di Evelyn Waugh. Avevano tutti i tic dell’occidentale alla moda che detesta l’Occidente e dunque quel pezzo di Occidente incastrato in una terra zeppa di paesi autoritari. Ma proprio tutti: anche Saddam Hussein, per loro, era del resto una marionetta nelle mani degli americani e degli israeliani: ne ero allibito. L’Inviato Collettivo (copyright Ferrara) snocciolava con l’aria di chi la sa lunga ed è informatissimo su ogni segreto della geopolitica da cucina tutte le banalità, tutte le frasi fatte, tutte le deduzioni arbitrarie che poi sarebbero rimbalzate, amplificandosi, sui media di tutto il mondo. Gli israeliani non hanno mai goduto di buona stampa nella stampa dei buoni. E i giornalisti che invece dell’American Colony preferivano alloggiare al King David (molto meno chic del giardino del Colony) venivano guardati con una certa malcelata ostilità dalla comunità dei simili. Per loro la versione ufficiale israeliana era e resta sospetta per definizione, mentre quella dei loro nemici al potere in Israele affidabile fino a prova contraria, ammesso che la prova contraria bastasse e venisse riconosciuta come prova a tutti gli effetti. Anche adesso parlano di Gaza come di un “territorio occupato”, ma Gaza non è territorio occupato dal 2005, quando Sharon, tra scene strazianti e coloni ebrei che indossavano la stella gialla gridando alla nuova Shoah, smantellò tutti gli insediamenti ebraici. Gaza era diventata territorio Judenfrei. Ma non le è bastato ancora. E noi, silenzio. Nessuna nuova dall’American Colony.

Tornando all’inizio. I palestinesi in esilio e scacciati dalla loro terra nella guerra del ‘48 sono stati circa settecentomila (negli accordi poi rifiutati da Arafat a Camp David ne sarebbero tornati quasi cinquecentomila: ma poi partì l’“Intifada dei martiri”). Lo sappiamo tutti. Nel frattempo, dal 1948 al 1967, oltre seicentomila ebrei sono stati costretti a fuggire dai paesi arabi e a rifugiarsi in Israele (troppo “territorio”), cacciati dal Marocco, dall’Algeria, dalla Libia, dall’Egitto, dalla Siria, dall’Iraq, dal Libano, dallo Yemen. In altri contesti l’avremmo definita “pulizia etnica”, ma nel contesto dell’ostilità anti-israeliana quell’espressione è per principio bandita. Rosellina Balbi, che curava magistralmente le pagine culturali di Repubblica ed era una roccia nella difesa di Israele dagli attacchi della crociata antisionista soprattutto nelle nostre contrade, le chiamava “parole malate”. Questa malattia ci ha corroso fono alla perdita di ogni capacità critica, ma soprattutto di ogni soprassalto di vicinanza alle ragioni di un popolo così platealmente minacciato nella sua stessa sopravvivenza. Le “parole malate” debordano, invadono giornali e università, si insinuano nel dibattito quotidiano, si installano spadroneggiando nelle menti e nei cuori di tante bravissime persone semplicemente prive di ogni basilare informazione. Siamo malati perché ci consideriamo colpevoli di ogni nefandezza. E gli ebrei, e Israele, i più colpevoli dei colpevoli.

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