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piccola posta

Il mercenario nella via di mezzo ha dimostrato cosa era incapace di fare

Adriano Sofri

Una cosa è certa, ed è buffo che perfino ora sia contrastata da qualcuno: che la mossa di Prigozhin non era stata combinata e non era stata una messinscena. Prigozhin faceva sul serio, ma non era serio

C’è davvero, nel centro di Firenze, una Via di Mezzo, si chiamò così perché stava al centro di un trivio. Ci dev’essere stata da qualche parte, all’origine, una vera via in mezzo alla quale qualcuno le suonò e qualcun altro le buscò così sonoramente che l’espressione fisica divenne metafisica, a significare che le cose iniziate e lasciate a mezza strada portano al disastro. Esiste bensì un’accezione positiva, morale, della via di mezzo, nel buddismo e nel linguaggio ordinario, a significare un ripudio degli estremi: ma non fa al caso nostro.

Il caso nostro riguarda la politica e il suo connotato fondamentale che è l’arte della guerra. Niccolò Machiavelli avvertiva principi vecchi o nuovi e repubbliche e comandanti, di rifuggire sopra ogni cosa la via di mezzo: in un brano dei Discorsi lo esemplificò con una famosa circostanza: “Debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Caudine”. Ora, il precipizio dell’aereo che portava i capimafia della Wagner è avvenuto, come una replica esemplare, a metà strada fra Mosca e Pietroburgo – le capitali, e l’itinerario più distante dal territorio della guerra. Si è detto che “restano i misteri”, e si continuerà a dire, perché niente è piacevole come il tormento di trascinarsi dietro i misteri. Ma una cosa è certa, ed è buffo che perfino ora sia contrastata da qualcuno: che la mossa di Prigozhin non era stata combinata e non era stata una messinscena, se non quanto è messinscena tutto ciò che riguarda il gioco del potere. Prigozhin faceva sul serio, ma non era serio. Era un feroce cialtrone a capo di un’armata ricca e agguerrita, ubriaco del sangue versato, dei suoi e altrui, così da sentirsi autorizzato a smascherare le menzogne di Mosca, a elogiare il valore del nemico ucraino, a sfidare terra e cielo: i generali felloni, i politici infingardi, i ricconi codardi, e lo stesso zar – il cielo è vicino, lo zar è lontano. La sua sorte si era giocata allora, in quella smania via via rincarata di video tonitruanti e minacciosi. Si era dimenticato anche, si direbbe, di essere così brutto. Uno che ammazza e fa ammazzare così all’ingrosso da un continente all’altro, e ammazza al minuto a martellate, pensa di aver riscattato la propria bruttezza con la paura che incute.  Dunque il 24 giugno si mette in moto. Ha uomini e armi proprie sufficienti a fargli balenare l’idea indocile del regno – o del viceregno, modestamente. Ha fatto adepti nelle file regolari e nella gente: i regolari e la gente sbalorditi e sbigottiti di fronte a un affare troppo grosso per non chiedersi se possa farcela, stanno a guardare, applaudono, fischiettano – quelli più in alto se la squagliano adducendo altri impegni, Putin compreso. Si mette in moto, chissà se l’aveva davvero deciso. La cosa più probabile è che sia indeciso a tutto. Ma ogni passo gli brucia un vascello alle spalle. Tira giù gli aerei militari e uccide i loro ufficiali. Forse è altrettanto sbalordito e sbigottito degli spettatori, come succede agli ubriachi, che ne sono incoraggiati a cantare e ballare ancora. Se trovasse una resistenza, di armati, di ordini, di insulti, forse ne sarebbe spinto a ingaggiare battaglia, tutto per tutto – aut Caesar-Czar, aut Nihil. Invece niente, fino a poche centinaia di km da Mosca. Sarà stato questo a spaventarlo a morte, a farlo tornare in sé, nel cialtrone servitore, e a perderlo. Perfino il vero Pugaciov seppe di averla fatta troppo grossa, andando al supplizio, ma lui anche allora continuò a salutare le ali di folla.

Prigozhin – così formidabile, e non c’è telegiornale che ne azzecchi l’accento – uno che si fermò a mezza strada, un po’ oltre la mezza strada. Uno che si illuse di aver mostrato che cosa era capace di fare, e aveva mostrato che cosa era incapace di fare. Poteva procedere impetuosamente, come suggeriva Machiavelli, e che la fortuna gliela mandasse buona. Ma lui era stato impetuoso con gli sventurati estratti dalle galere e spediti col fucile alla schiena a far saltare le mine a Bakhmut, ed era stato impetuoso con le parole scagliate contro gli stati maggiori e poi, una parola tira l’altra, al Cremlino in persona: ora era una mezza figura, fermato nella via di mezzo, come chi abbia finito la benzina. Un giocatore d’azzardo che lascia quando sul piatto sta l’intera posta, dopo averla rialzata fino a quel punto. Si dirà che allora si guadagnò la morte, per sé e la sua corte: in realtà si guadagnò due mesi in più, fra la condanna e l’esecuzione. Che non gli ha dato nemmeno l’onore delle armi, il privilegio di essere fatto fuori personalmente, bensì in una piccola strage, tutti uguali, lui e il nazista suo vice e il vice del suo vice e il pilota e la hostess… Mentre era in corso il gran consesso dei Brics, osserva qualcuno dubitosamente: proprio così, mentre era in corso, e Putin in video spiegava ancora che aveva dovuto sventare uno sterminio, e i missili di Putin bombardavano i granai di Odessa e del Danubio, grano per i Brics e per quelli che la promozione a Brics ancora se la sognano. E un aereo nemico in volo verso Pietroburgo, incenerito, a mezza strada.

Putin è anche lui un giocatore d’azzardo. Si stenta di più a pensarlo per uno che tiene il banco e saldamente, dicono. Ma non è diverso dal Prigozhin che urlava dai cimiteri di Bakhmut. Sta ancora attento a non farsi fotografare nei cimiteri di guerra. Un’altra cosa raccomandava il segretario fiorentino: di farsi temere, e però di non farsi odiare. Non troppo.

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