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Difendere la libertà ucraina, senza temere accuse di disfattismo

Adriano Sofri

La differenza fra aggressori e aggrediti non è un preambolo cerimoniale, è il discrimine decisivo. Ma tutti coloro che guidano un paese in guerra devono temere soprattutto il collasso della propria gente. E l’Ucraina non è il Vietnam del secolo scorso. Gli imprevisti sono sempre in agguato

C’è un fronte che si augura cordialmente, intimamente, la vittoria della Russia, tutt’al più edulcorandola con la previsione saggia e malinconica dell’ineluttabile sconfitta ucraina. C’è un fronte pacifista che somiglia a un magazzino di emergenza, in cui accatastare le cose scampate a un terremoto o a un’alluvione, e appenderci su un cartello di preghiera per la martoriata Ucraina. Poi c’è una solidarietà con l’Ucraina, cui corrisponde in proporzione una ripugnanza per il totalitarismo russo, che alla distanza è venuta differenziandosi lungo due sentimenti. Uno che chiamerò trionfalista, perché ha deciso di trasformare la sua simpatia con una strenua resistenza in una ostentata fede nella vittoria militare ucraina, alla stregua delle dichiarazioni ufficiali delle autorità ucraine. Un altro che non saprei come chiamare se non taciturno, che non è affatto tentato di revocare la propria solidarietà, ma si adatta, o si rassegna, a non argomentarla più in modo appropriato allo svolgimento delle operazioni di guerra e del loro contesto internazionale, anche, se non soprattutto, per la difficoltà di farsi un’idea adeguata delle une e dell’altro. Lo assomiglierei forse, col favore dell’estate e dei suoi deserti, con l’impulso non ignobile a mettere la testa sotto la sabbia, per proteggersene gli occhi.

Il contesto internazionale pertinente non ha fatto che dilatarsi. Solo nell’ultimo periodo, dopo la marcia surrealista della Wagner alla volta di Mosca, l’impegno della Bielorussia e di conseguenza degli stati confinanti, la Polonia pre-elettorale specialmente, e la Lituania, si è moltiplicato. Così la decisione russa di spedire i missili ad abbaiare alla frontiera con la Nato di Romania. Le guerre intestine rinfocolate in Africa, in Sudan e ora nel Niger, sono anch’esse una proiezione della guerra d’Ucraina. E lo sono, ancor più minacciosamente, le evoluzioni giudiziarie, politiche ed elettorali interne ai paesi dell’immaginato Occidente. (Trump, certo. E ora l’Argentina, dove la metteremo? Dove si metterà?) E’ poi di ieri l’ultima notizia dal G20, che è un campo di gioco con almeno due porte di entrata e uscita, chiuse o aperte a turno. C’è, non ultima se non per la corsa al ridicolo, la Corea del Nord visitata reverentemente da Shoigu, la quale proclama inevitabile la guerra nucleare con Seul.

Del contesto mondiale, ecco l’Afghanistan: sul quale, nel secondo anniversario del “ritorno dei talebani”, e della rotta del cosiddetto occidente, tanta commossa retorica sulla sorte delle donne e dei bambini si è risollevata. Sicché è superfluo rincararla, se non per ricordare la connessione diretta fra quello scenario di Kabul, il formicaio umano impazzito attorno all’aeroporto, le formiche umane appese al carrello degli aerei decollati alla rinfusa, e l’atteggiamento riparatorio degli Stati Uniti di Biden e, al loro seguito, dei paesi dell’Alleanza atlantica, verso un’Ucraina che intanto per suo conto aveva scelto di opporsi all’ultimo sangue all’invasione russa. Naturalmente, i governanti della terra e i suoi comuni abitanti sanno mettere una distanza di sicurezza fra la recriminazione postuma sugli effetti delle loro diserzioni e la compromissione nel vivo degli eventi. Nessun paese quanto l’Afghanistan – benché la concorrenza sia serrata – mostra la falsità cinica del rispetto antropologico per usi e costumi “diversi”. Una masnada (o due o tre, fra loro rivali) tiene in balìa un popolo, infierendo soprattutto su “donne e bambini”, la categoria cui dare la precedenza nei salvataggi.

Dunque, a che punto è la guerra d’Ucraina, che così profondamente è anche la nostra guerra? E’ difficilissimo dirlo, e oltretutto la più fondata previsione, in guerra e in pace, riguarda la probabilità degli avvenimenti imprevisti. Le informazioni certe sono poche. L’Onu comunicava ieri che i civili ucraini uccisi sono quasi 10 mila, 500 bambini, e quasi 17 mila i feriti. Dei militari si deve solo immaginare, in proporzione. Le dichiarazioni ufficiali rispettive di aggressori e aggrediti hanno in comune il proposito primario di legarsi le mani e cautelarsi rispetto a qualunque accusa di debolezza o cedimento. L’oltranzismo è la loro cifra. Con qualche licenza ipocrita in più per il Cremlino, che deve temere meno una propria pubblica opinione, che non c’è. In ambedue i paesi, la minaccia principale sta nell’oltranzismo nazionalista interno, che anche quando non è più il sentimento della maggioranza, ammesso che lo sia stato, è l’unico a organizzarsi e alzare la voce. Questo si è mostrato evidente nella (sanguinosa e impunita) bravata di Prigozhin. L’Ucraina compie e pubblica sondaggi più significativi, ma il tono ufficiale è immutato. Martedì, quando il capo di gabinetto di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, Stian Jenssen, norvegese come il suo principale, ha risposto a una domanda degli intervistatori che si potrebbe immaginare un ingresso ucraino nella Nato nell’eventualità di una cessione di territorio alla Russia, così da assicurare il paese da ulteriori aggressioni – più un’estemporanea ipotesi che un ballon d’essai, si direbbe, e subito dopo smentita – da Kyiv si è risposto ad alzo zero: “Ridicolo”. E si è rincarato all’indomani, quando la vicepremier Iryna Vereschchuk ha detto che bisogna che gli ucraini siano uniti e pronti a una guerra che “non finirà fra due o tre settimane, né entro la fine dell’anno, né la prossima primavera”. Parole.

La differenza fra aggressori e aggrediti non è un preambolo cerimoniale, è il discrimine decisivo. Ma tutti coloro che guidano un paese in guerra, aggressori e aggrediti, devono temere soprattutto il collasso della propria gente. E l’Ucraina, cioè l’Europa, non è il Vietnam del secolo scorso. Gli imprevisti sono sempre in agguato, ma nessun comandante può puntare sull’imprevisto senza diventare un giocatore d’azzardo. Putin ha puntato i suoi rubli sul mercato del mondo terzo, e intanto deve scontare gli interessi. Ha un vantaggio: il peso leggero dei suoi morti. Viene il momento in cui i morti presentano il conto. Fino a un certo punto i morti, i caduti combattendo e i civili nelle loro case, tengono in ostaggio i vivi, li costringono a un’oltranza. Oltre quel punto – difficile da misurare – i morti diventano troppi per gli stessi vivi.

L’altro giorno un motu proprio di Zelenskyj ha congedato tutti i responsabili provinciali del reclutamento e li ha fatti sostituire, sotto il controllo del comandante in capo, Valerij Zaluzhnyj, da militari feriti e reduci dai campi di battaglia. Una misura di enorme portata. Rimozioni brusche e clamorose di personalità private, oligarchi, o istituzionali, come il procuratore generale o il capo della sicurezza o dei ministri, erano ripetutamente avvenute, per intaccare una corruzione endemica e per adeguarsi ai requisiti della Ue e degli alleati. Ma i responsabili del reclutamento si trovano nel ganglio più sensibile di un paese in guerra che conta sull’adesione volontaria dei suoi cittadini. L’ultimo episodio, i 4 milioni di dollari per una villa a Marbella del commissario al reclutamento per l’oblast di Odessa, era grottesco. Ma i cittadini ucraini credono da sempre di conoscere le tariffe, vere o truffaldine, incamerate ai vari gradini della gerarchia pubblica per esentare o rinviare il reclutamento, così come conoscono e hanno dato pubblicità ai modi illeciti e maneschi di reclutare per le strade. (Ne avevo scritto qui da Odessa, in particolare il 4 febbraio scorso). Oggi quegli episodi sono raccolti e mostrati da giornalisti e osservatori internazionali, attorno alla questione dolente dell’obiezione di coscienza. L’Ucraina non è la Russia e anzi vuole offrirne un’immagine capovolta, così nel rispetto per la vita dei propri combattenti e dei propri civili, come nel rispetto dei diritti degli obiettori. I quali del resto non sono né saranno il vero problema per i governanti ucraini. Il vero problema sono le persone, i maschi in età regolamentare, e i loro famigliari, che non dissentono affatto dal giudizio sulla sopraffazione che il loro paese subisce, ma, un anno e mezzo dopo, sono sempre meno pronti alla morte. (“Pronti alla morte”, è il verso del nostro inno, scritto da un giovane di vent’anni, morto combattendo a ventuno).

Bisogna guardarsi dal dare consigli, lontani come siamo dal buon esempio. Ma le poche persone che in Ucraina se ne portano addosso il peso schiacciante, potrebbero forse parlare più apertamente alla propria gente, al resto del mondo, e a se stesse, della tremenda responsabilità con cui ha a che fare un paese che debba difendere la propria libertà, senza temere accuse di disfattismo o di tradimenti.

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