Giuseppe Pellizza da Volpedo, "Il quarto stato" (Wikipedia)

piccola posta

Vecchie e nuove umanità invisibili, in marcia verso il riscatto

Adriano Sofri

Dal "Terzo stato" di Sieyés a Pellizza da Volpedo, era un’illusione generosa e micidiale quella della parte di genere umano che, liberando se stesso, avrebbe riscattato l’umanità intera

Da sempre, periodicamente, l’umanità ha fatto tesoro delle proprie nuove esperienze per estrarre dal passato vite umiliate e inosservate e proporne fieramente il riscatto. Nel 1789 l’abate Sieyés pubblicò il suo famoso pamphlet “Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Di diventare qualcosa”. Piuttosto moderato, dunque, all’apparenza: rivendicava alla borghesia di essere tutto e dichiarava di accontentarsi di qualcosa – poi, delle rivoluzioni, si sa come cominciano e non come finiscono. Meno di un secolo dopo, nel 1871 della Comune di Parigi, furono composti i versi dell’Internazionale, che parafrasavano Sieyés senza contentarsi più: “Nous ne sommes rien, soyons tout!”, non siamo niente, vogliamo essere tutto! Nell’Internazionale c’era già la pretesa di riscattare, attraverso “la lotta finale” dei dannati della terra, “l’intera umanità” – L’Internationale, sera le genre humain. Prima della lotta finale ce n’era una parziale, ogni volta la penultima, la semifinale, rivelata dalla promessa “non più”, “mai più”: “Non siam più la Comune di Parigi che tu, borghese, schiacciasti nel sangue…” (qui eravamo fra le due guerre mondiali). Luoghi comuni, come nella “Valle Giulia” di Pietrangeli, 1969: “Non siam scappati più”.

Quando Brecht scrive le sue “Domande di un lettore operaio”, si propone di fare un catalogo degli invisibili che hanno fatto la storia venendone cancellati o dimenticati: “Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? Dentro i libri ci sono i nomi dei re. I re hanno trascinato quei blocchi di pietra? Dove andarono i muratori, la sera che terminarono la Grande Muraglia? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”. Nell’ultimo decennio del Novecento, un secolo dopo la rivoluzione francese e il Terzo Stato, Pellizza da Volpedo dipinse il suo glorioso “Quarto stato”. Ci lavorò molti anni, prendendo a modelli – tre lire al giorno – i suoi compaesani, modificandone via via composizione e tratti e colori, sempre attenendosi all’idea dei lavoratori in marcia come un’alluvione, una “fiumana” che s’ingrossa ed è pronta a rompere gli argini per veder riconosciuti i propri diritti. Ci lavorava ancora quando vide l’eccidio di Bava Beccaris. “E’ giunta l’ora del riscatto”, scrisse. C’è una donna nel terzetto in primo piano, con un bambino in braccio e un ampio gesto di invito a unirsi, è la futura umanità già vivente, la modella è sua moglie, Teresa, a piedi nudi, come la Madonna del pellegrino di Caravaggio. Anche lui dice “non più”: il proletariato che si è messo in cammino “non è più una natura morta”. Nel 1907, cinque anni dopo che il gran dipinto era stato ultimato, Teresa morì di parto. E un mese dopo, a 40 anni, si impiccò lui, il pittore. E la prima donna nella fiumana di braccianti e lavoratori del secondo piano era la sorella di Teresa, che nello stesso anno morì di tubercolosi. Sono alcune delle cose che vengono dopo il quadro, poco dopo.

Era un’illusione generosa e micidiale quella della parte di umanità che, liberando se stessa, avrebbe riscattato l’umanità intera. Non si fa che scoprire altre parti di umanità che erano rimaste invisibili e che si era preferito non vedere. E’ qui il punto di forza difficilmente superabile delle culture della cancellazione, oltre tutte le idiozie in cui sguazzano. C’era qualcuna, qualcuno, che non era ancora entrato nel quadro, né nelle poesie di Brecht, né nei monumenti e nei nomi delle strade. Viene il giorno in cui si fanno spazio. Le migrazioni, vecchie come il mondo, hanno fatto il mondo. Ma fino a poco fa le nostre canzoni, struggenti, pensavano ai migranti che andavano via, partono i bastimenti. Poi sono diventati, e nemmeno poco fa ormai, i migranti che arrivano, e annegano, e ancora non sappiamo che cosa metterci. Le donne malmenate sotto il tetto domestico, che ora sono il vero senso del proverbio sui panni sporchi che si lavano in famiglia, non c’erano nel quadro, e nei romanzi e nelle canzoni sì, ma per suscitare la compassione per i “loro” uomini. Ora poi tutto va così in fretta che occorre essere (auto)indulgenti con i ritardi: vite tanto allungate, cambiamenti tanto precipitosi, come volete che se ne sia all’altezza? Fluidità, è la parola, serve a persuadersi che rigidità antiche stiano cedendo di schianto a una disponibilità ai mutamenti, alle mutazioni perfino, più sensibili alle culture che alla natura – alla “natura morta”. Ma donne malmenate e mortificate, “devianti” sessuali braccati o costretti a imbucarsi in chiese monasteri collegi o a sorridere di giorno e tormentarsi di notte, diversi di colore, e donne ingravidate per altri, e matti e matte fatti ammattire, ce ne sono sempre state tante, tanti, innumerevoli, e mai del tutto somiglianti, così da poter essere annoverati nello stesso quadro, in una stessa ideale fiumana. Invece procedenti alla rinfusa, soli o in gruppi, più o meno grandi, e nemmeno in marcia verso lo stesso avvenire – verso lo spettatore, poi – ma in una inesauribile rottura delle righe. Perfino la guerra ora si fa per la vecchia ragione, di rimettere tutto in ordine, ristabilire argini e frontiere fisiche e morali, e per vincerla occorre rinunciare alle illusioni, compresa quella di non umiliare il nemico, compresa quella della futura umanità.

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