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La vera banalità del male è il femminicidio

Adriano Sofri

Le diverse declinazioni della paura dell’altro sesso. Se le donne venissero guardate per un momento come un’etnia, o un gruppo religioso, non si potrebbe spiegare perché rinuncino a un’autodifesa militante

Cominciamo da un piccolo colpo di scena. “Se n’è andata. Adesso sono libero!” – il barman di Senago. “La mia donna è morta, sono libero!” – il primo verso del “Vino dell’assassino”, di Charles Baudelaire, “I Fiori del male”. “Ma femme est morte, je suis libre!”, posso bere a volontà, tanto vino quanto ne tiene la sua tomba, e non è dire poco, perché l’ho buttata in un pozzo…

Quasi testuale. No, non è uno scherzo di cattivo gusto. Vuol dire una prima cosa: l’augurio di non ritrovare questo sciagurato al centro di una nobilitazione artistica. Una porzione enorme della miglior letteratura (e un bel po’ di canzoni) è fatta di femminicidi, che non a caso non si chiamavano così. (Si chiamavano caso mai “uxoricidi”, ammazzamenti di mogli, anche nei rarissimi casi in cui una moglie ammazzava il marito). Non da tanto si è cominciato a provare un imbarazzo per Otello e Moosbrugger, per la Sonata a Kreutzer o per l’Assassino speranza delle donne, o per l’Amore mio che dorme in via Broletto 34.

Elena Stancanelli ha scritto un commento per la Stampa, sugli uomini che dicono che le donne fanno loro paura. Quelle come lei, nate negli anni 60, ha scritto, sono cresciute così: “E un po’ ci faceva rabbia e un po’ ci faceva ridere. Ma adesso mi chiedo: ma gli uomini, lo sanno cosa significa davvero avere paura di qualcuno per il solo fatto che non appartiene al tuo stesso sesso? Chissà perché non me lo sono chiesto per tanti anni. Forse perché mi sembrava normale accelerare il passo tornando a casa da sola la sera, o tremare se in uno scompartimento di treno vuoto un maschio mi si sedeva accanto. Lo sanno i maschi cosa vuol dire quando per un lungo tratto di strada sei solo tu con quel tizio che forse ti sta seguendo? Lo sanno cosa vuol dire quando chiedi aiuto, e a volte è pure peggio, e quell’uomo a cui ti sei rivolta, magari un poliziotto, inizia a fare cose strane? Noi donne lo sappiamo. Tutte. Fin da quando siamo bambine… A qualsiasi donna è successo milioni di volte di avere paura. Una paura vera. La paura di essere stuprata, picchiata, ammazzata. Le donne hanno diritto di dire che hanno paura degli uomini. Gli uomini non hanno diritto di dire che hanno paura delle donne. Mai, in nessuna circostanza… La paura è quando pensi che se fai un gesto sbagliato sei morta. Tutto il resto è ansia, debolezza, lagna, scuse, ma soprattutto difficoltà a fare i conti col proprio tempo”.

Io ero nato più di vent’anni prima, e maschio, esemplarmente maschio. Quando mi imbattei nel femminismo – ci andai a sbattere – ne fui intontito per bene, e appena mi riebbi ci vidi una vera fortuna. Come tutti i neofiti e i convertiti – specialmente quelli che escono da un orizzonte chiuso all’aria aperta, come chi esce dalla galera – fui presto pieno di meraviglia di me e degli altri. (In un anno recente l’Organizzazione mondiale della sanità certificò che “la violenza di genere era la prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni, più delle malattie e degli incidenti stradali: anche in Europa. E nella maggioranza vittime del loro partner attuale o passato!”).

Con una fioritura così rigogliosa di pensatrici e militanti femministe, come potevano ancora, in tante, rassegnarsi a un’enormità come le sopraffazioni, spinte fino a ucciderle, per il solo fatto di esser donne, in qualunque luogo del pianeta e in qualunque rango sociale? Le donne non erano una categoria sociale, come gli schiavi – c’erano bensì schiave donne – o i proletari – c’erano bensì donne proletarie e insieme serve di proletari. Erano una gigantesca parte del genere umano – la metà del cielo o più (cattivante espressione, che accantonava la terra). “Una parte naturale”, allora: vicina, caso mai, agli “altri animali”, la sensibilità ai quali cresceva assieme alla loro. Com’era sempre stato: la donna d’altri, il bestiame d’altri. Di volta in volta, parti minori di umanità erano state il paradigma della sottomissione. I cinesi, perfino, anche se oggi suona strano: “Gli animali sono i cinesi della creazione”, aveva detto qualcuno (Nietzsche?). Il paragone più urgente era con gli ebrei, benché siano una minoranza e benché non appartengano a una condizione “naturale”: ma le paure, le superstizioni e i fanatismi altrui li hanno deumanizzati, “naturalizzati”. E gli ebrei, credenti o no, sono disprezzati e perseguitati – e uccisi – in quanto ebrei. E, come alle donne, si attribuisce loro di attirarsi quello che subiscono.

Nel suo (molto bello) “K.” (2002), Roberto Calasso osservò che “una volta sola, scrivendo a Milena, Kafka parlò di ebrei in modo diretto e diffuso. Scriveva per rispondere a una domanda di Milena che lo aveva preso alla sprovvista e doveva sembrargli inverosimile (‘Lei mi chiede se sono ebreo, forse è soltanto uno scherzo’). Scrisse: ‘La posizione incerta degli ebrei, incerta in sé, incerta fra gli uomini, dovrebbe rendere comprensibile più di ogni altra cosa per quale motivo essi possono credere di possedere soltanto ciò che tengono in mano o fra i denti, che inoltre soltanto il possesso tangibile dà loro diritto alla vita e che ciò che hanno perso una volta non lo riacquisteranno mai più, ma si allontanerà beatamente da loro per sempre. Dalle parti più improbabili gli ebrei sono minacciati da pericoli o, se vogliamo essere più precisi, lasciamo stare i pericoli e diciamo ‘sono minacciati da minacce’”. La solitaria formulazione privata di Kafka, tanto più se si ricordi il destino di Milena, non somiglia a quello che Stancanelli ha voluto dire sulla scia di una cronaca raccapricciante e insieme meschinissima? Il femminicidio è infatti la vera banalità del male. Provate: “La posizione incerta delle donne, incerta in sé, incerta fra gli uomini… Le donne sono minacciate da pericoli o, se vogliamo essere più precisi, diciamo ‘sono minacciate da minacce’”. Funziona, no?

Femminicidio (o, peggio, “femmicidio”) non era stata una bella parola: ma il fatto è infame, e del suo orrore faceva parte la rinuncia a dargli un nome proprio. Le donne ammazzate perché sono donne, e gli uomini che ammazzano donne, sono altra cosa dal nome comune, che si pretende neutro, di omicidio. Le cifre opposte sono così irrisorie da rendere superfluo il conio di maschicidio.

L’uomo che uccide la “sua” donna compie il più alto sacrificio di sé, in tutta una venerabile tradizione artistica e letteraria, più che se ammazzasse sé per amore… “Poiché ogni uomo uccide ciò che ama”, come dice la Ballata di Reading, e canta Jeanne Moreau: each man kills the thing he loves.

Se le donne non fossero il genere umano, la parte decisiva del genere umano, e venissero guardate per un momento come un’etnia, o un gruppo religioso, o una preferenza sessuale, non se ne potrebbe spiegare l’inerzia così lunga e tormentosa di fronte alla persecuzione, la rinuncia a un’autodifesa militante. Questo varrebbe fin dal genocidio delle bambine prima e dopo la nascita in tanta parte del mondo.

“Chissà perché non me lo sono chiesto per tanti anni”, dice appunto Stancanelli. Bisognava che gli uomini smettessero con la lagna che “hanno paura delle donne”. Bisognava che cominciassero davvero ad averne paura?

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