(foto Ansa)

ricordi di un cronista

Il caso Impagnatiello è il segno di una cronaca nera senza regole. E l'Ordine dei giornalisti che fa?

Perché ribellarsi a un'overdose di storie raccapriccianti e di processi tv senza precedenti

Massimo Lugli

Un’ondata di voyeurismo travestita da giornalismo, una brama di macabro, una pruriginosa attenzione ai particolari più torbidi ha scardinato da tempo ogni confine di imparzialità, correttezza professionale o semplice ragionevolezza. E in passato non andava meglio

La conduttrice lo chiama “mostro” in diretta. Poi, in qualche modo, si scusa: “L’aveva già detto sua madre”. E in effetti è proprio così: per Alessandro Impagnatiello, assassino della compagna Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, si è sdoganata quell’espressione che, secondo il manuale di giornalismo di Mario Lenzi, testo sacro di tutti i professionisti alle prese con l’esame dell’Ordine, non si dovrebbe mai e per nessuna ragione usare. Tantomeno scrivere. Ma tant’è: un’ondata di voyeurismo, una brama di macabro, una pruriginosa attenzione ai particolari più torbidi ha scardinato, da tempo, ogni confine di imparzialità, correttezza professionale o semplice ragionevolezza. E allora sotto con microfono e telecamera a registrare veleni, insinuazioni, maldicenze di paese o di vicinato, tutto fa notizia. Avete mai letto il cognome di Omar, ai tempi del giallo di Novi Ligure?  Storia di sangue e dolore anche quella: 21 febbraio 2001, due fidanzatini adolescenti, lei 16 anni, lui 17, uccidono a coltellate la madre della ragazza, Susanna Cassini e il fratellino Gianluca di 11 anni.

 

Le leggi sulla privacy, in questo caso, impongono che ai minorenni venga garantito l’anonimato e, infatti, su nessun giornale comparvero i cognomi, nessun media osò citarli. Questa garanzia, attenzione, vale anche in seguito ma quando Mauro Favaro, alias Omar, ormai libero dopo aver scontato la pena (14 anni) viene denunciato dalla ex moglie per violenza sessuale e minacce, tutti scoprono come si chiamava in realtà. Per una vicenda simile, un cognome di un condannato minorenne che, in seguito, aveva compiuto i 18 anni ed era stato citato col cognome in un titolo, chi scrive fu sottoposto a un procedimento disciplinare dell’Ordine (per la verità concluso con l’“assoluzione” piena).

 

L’Ordine, appunto. Se esiste, batta un colpo perché le violazioni della Carta di Treviso, che dal 1990 autoregolamenta il modo di trattare casi di violenza o discriminazione che coinvolgano minori e persone fragili, sono ormai ordinaria amministrazione. Quanto alla legge sulla privacy non parliamone nemmeno. E la cosa più assurda è che mentre è in vigore la norma sulla presunzione di innocenza, che praticamente imbavaglia i cronisti e delega esclusivamente l’autorità giudiziaria a fornire notizie, sui media si scatena un’overdose di storie raccapriccianti e processi televisivi senza precedenti. Colpa dei programmi di attualità, della solita tivù che spettacolarizza tutto, pretende immagini e dichiarazioni da testimoni e investigatori ed è alla costante, spasmodica, ricerca di novità e quando non ci sono si inventano? Forse.  Dei caporedattori distratti che pensano allo share e se ne infischiano delle regole professionali? Può essere. O vogliamo dar retta alle fole complottiste per cui più si parla di omicidi e meno di politica che, in questo periodo, non è esattamente al top?

Che la cronaca nera faccia audience non è una novità. La regola delle tre “esse”, quella dei capicronisti cagnacci, è sempre valida: il giornale si vende col sesso, il sangue e i soldi. Il modo di trattarla, però, non più quello degli anni Settanta quando il cronista, allora diciannovenne in prova, alle prese con uno stupro di gruppo, si sentì salutare con questo viatico da un caporedattore assatanato: “Torna con la foto della ragazza violentata o non tornare affatto”.

 

Una nera senza regole quella di quarant’anni fa. Con il tredicenne che ammazza il padre, la diciassettenne violata dei satanisti, l’assassino minorenne di Pier Paolo Pasolini: tutti in prima pagina con foto, nome e possibilmente intervista. E Donatella Colasanti che racconta il suo orrore ripresa in diretta dal letto d’ospedale? Altri tempi, sicuro ma… tutto questo, oggi, è veramente impensabile? Da come stanno andando le cose probabilmente no. Ma mettiamoci anche gli avvocati maneggioni che passano più tempo nei salotti televisivi che in tribunale e certi pm (o spesso ex pm) che potrebbero fare qualsiasi cosa per un’apparizione a “La vita in diretta” e il quadro è completo. Chi credete le passi tutte quelle carte alla stampa? Signori, il delitto è servito. Con tutti i particolari da Grand Guignol per condimento. Ma siamo in fascia protetta? E chissenefrega. L’essenziale è non dire parolacce e magari evitare di parlare di politica.

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