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piccola posta

L'ombra sorniona di Sciascia si aggira nei non detti di Mattarella

Adriano Sofri

La citazione dai “Promessi sposi” ripresa dal presidente della Repubblica ieri si trovava un po’ dappertutto: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Un pensiero che si confonde con quello dello scrittore siciliano

Caro Claudio Cerasa, ho letto la citazione dai “Promessi sposi” che hai ripreso da Sergio Mattarella e che ieri si ritrovava un po’ dappertutto. “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Ho fatto un minuscolo esperimento: ho chiesto a uno di passaggio di chi fosse la frase. Ha titubato un momento: “Sciascia?”. Nessun valore statistico, naturalmente, però me l’aspettavo. Succede che un autore dedichi la propria speciale devozione a qualche altro autore, e ne ricavi un po’ di luce riflessa: a volte, riesce a legare loro il proprio nome, ad appropriarsene luminosamente. Gran merito, soprattutto se quelli cui è devoto sono dei massimi. E’ così per Leonardo Sciascia con Stendhal e con Manzoni. Del secondo, disse: “Se mi si chiedesse a quale corrente di scrittori appartengo, e dovessi limitarmi a un solo nome, farei senza dubbio quello di Manzoni”. Di Stendhal, scrisse in modo gelosamente esclusivo, in apertura dell’“Affaire Moro”, che l’aggettivo così pasoliniano, “adorabile”, lui l’aveva forse qualche volta scritto, e sicuramente più volte pensato: “ma per una sola donna e per un solo scrittore. E lo scrittore – forse è inutile dirlo – è Stendhal”. 

Ho letto sul sito del Quirinale il testo del discorso del presidente. Non ha nominato né Stendhal né Sciascia, ma è come se l’avesse fatto. Quando ha detto: “Non si può spiegare Manzoni senza Milano e, penso che si possa dire, Milano senza Manzoni”. Scrisse Stendhal nei “Ricordi di egotismo”: “Sono arrivato a Milano nel maggio 1800, amo questa città. Qui ho provato i piaceri più grandi e i più grandi dolori. Qui soprattutto, ed è ciò che fa una patria, ho provato i primi piaceri. Voglio invecchiare e morire a Milano”. Sulla tomba di Montmartre è scritto: “Arrigo Beyle, milanese”. 

E ricordare la Colonna infame è ormai come nominare Leonardo Sciascia. Il quale, nell’introduzione alla “Storia della Colonna infame” – “I burocrati del Male” – aveva scritto di “una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre”. Con il dovuto rispetto, mi pare come se il presidente avesse citato anche quello. 

All’indomani poi si sarebbero ricordate le vittime di mafia, e poi rivista la faccia di quel Baiardo, e poi votata la presidenza della Commissione antimafia, e insomma l’ombra sorniona di Sciascia si aggirava dappertutto. Farne il nome avrebbe complicato un po’ le cose solo per quella sua convinzione tenace che il vero protagonista dei “Promessi sposi” sia don Abbondio, altro che la Provvidenza.

Io posso ricordarlo.