Ansa

piccola posta

Caro Gad, la compassione per i defunti precede l'indulgenza

Adriano Sofri

Sarebbe prudente parlare o scrivere del proprio prossimo, quando è ancora vivo, come se fosse già morto. Meno magnanimo il criterio opposto: parlare del proprio prossimo, quando è morto, come se fosse tuttora vivo

Caro Gad, ti sottopongo un lieve dissenso quanto all’indulgenza. Parola che a suo tempo da noi prese un significato troppo tecnico, per così dire, ed è noto che le indulgenze comprate e vendute già ci separarono dall’Europa, e stanno per farlo di nuovo. Però, come sai, una compassione per i defunti precede l’indulgenza e le sue degenerazioni di mercato. “Parce sepulto”, ammonisce lo spirito di Polidoro a Enea, e se ne capisce il senso, tanto più in quell’Italia che non fu solo il paese della Controriforma, ma anche e soprattutto il paese di Maramaldo. Quel rispetto per i morti – che ha le sue ragionevoli gradazioni e anche le sue vere e proprie eccezioni – è poi in fondo una piccola caparra versata a protezione della propria posterità, dal momento che siamo tutte e tutti mortali, se non morituri da un momento all’altro (mi manca tanto il participio futuro).

Un criterio più o meno prudente sarebbe quello di parlare o scrivere del proprio prossimo, quando è ancora vivo, come se fosse già morto, o più precisamente come se fosse appena morto. Non sarebbe facile, ma si potrebbe provare. Io, per esempio, non ho desiderato scrivere di Berlusconi adesso, se non altro per non piovere sul bagnato, e caso mai avrei fatto la prova di ripubblicare le tre o quattro cose che scrissi su lui vivo. Mi sembra meno magnanimo il criterio opposto, di parlare del proprio prossimo, quando è morto, e specialmente appena morto, come se fosse tuttora vivo – per la ragione detta sopra.

E siccome siamo in argomento, e ho guardato il funerale milanese e scorso titoli e cronache, mi è venuta in mente un’altra inversione possibile, quella della sentenza famosa di Leo Longanesi (o era di Flaiano? Non posso controllare, sono in tram, direi Longanesi) secondo cui in Italia la rivoluzione non si può fare, perché ci conosciamo tutti. Mai è stata così platealmente verificata come nell’interno del Duomo di Milano di mercoledì – e i pochi che non c’erano erano a loro volta conosciutissimi, e non c’erano per quello. Ecco, il pensiero che mi è venuto è questo: che se è vero che la rivoluzione in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti, forse è vero che si può rifare il fascismo perché ci conosciamo tutti. Fu vero già la prima volta: avevamo dormito nella stessa stanza d’affitto, nella stessa cella di galera, nello stesso partito. Poi qualcuno prese il treno.

Di più su questi argomenti: