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L'inverosimile vicenda degli 007 sul Lago Maggiore e il pretesto per parlare di un libro

Adriano Sofri

Le storie di spie, come quelle investite in barca dalla tromba d'aria, sono affare di specialisti. Il migliore è stato Giorgio Boatti, che l'anno scorso ha pubblicato “Abbassa il cielo e scendi”, la storia di un fratello, e della sua vita e della sua morte poetica e tormentata

Incalzata da Netflix e dall’intelligenza artificiale, la realtà si ribella e produce uno scoop incomparabile. Il lago Maggiore, una barca di 15 metri dal nome cretino “Good…uria”, 23 agenti segreti italiani e del Mossad, una fatale tromba d’aria – una turbolenza in aria chiara – che la rovescia e annega quattro passeggeri, compresa la compagna dello skipper, ovviamente russa, i sopravvissuti prontamente esfiltrati… Povere persone, sul cui destino l’inverosimile vince sulla compassione.

Sulle storie di spie i profani possono solo fare dell’ironia, o del sarcasmo. Per il resto, è affare di specialisti. Il migliore, per il poco che ne so, è stato Giorgio Boatti (Pavia, 1948) che, cresciuto alla scuola democratica di storia militare di Giorgio Rochat, si è dedicato a lungo allo studio e al racconto dei servizi di intelligence italiani. Di quella competenza ha fatto tesoro, oltre che in una diuturna attività giornalistica, per quello che resta il più bel libro sul 12 dicembre 1969, “Piazza Fontana, il giorno dell’innocenza perduta”, Feltrinelli 1993, poi riedito e aggiornato più volte per Einaudi, fino all’edizione del cinquantenario, 2019.

Boatti ha pubblicato ancora tanto, libri di viaggi italiani in luoghi illustrati da comportamenti appartati e ispirati, e specialmente un prezioso “Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini”, Einaudi 2001. Ma la ragione per cui ne scrivo oggi, col pretesto – no, con l’appiglio, del fantasmatico naufragio di spie nel lago, è il libro che Boatti ha pubblicato l’anno scorso per Mondadori, “Abbassa il cielo e scendi”. Un “romanzo”, la storia di un fratello, e della sua vita e della sua morte poetica e tormentata.

Un libro inaspettato, a prima vista, così sinceramente e dolorosamente intimo. La domanda antica: sono io responsabile di mio fratello? Leggendolo, ci si accorge di nuovo come i temi spinosi e trattati come argomenti di studio fra gli altri, l’età dello spionaggio degli stati e delle grandi compagnie private, le trame e le stragi, si riflettono nelle esistenze personali, mettono alla prova la tempra e la serenità di chi le maneggia lucidamente, e le travolgono imprevedibilmente e irreparabilmente in chi gli è più vicino. Lui, il fratello matto, sente voci, migliaia di voci. Scrive col pennarello sui muri. “I sassi sono gli occhi delle montagne mandati a scoprire com’è fatto il mare”. “Il miracolo non è risorgere, è restare vivi”. La sua schizofrenia gli fa vedere nell’altro, quello normale, un’ottusità, nella sua lucidità un lavaggio del cervello. E però gli si mette in mano, fra l’abbandono e il ricatto: “Tu sai le segrete cose e conosci gente capace di ogni durezza…”. Le vite che l’autore racconta sono due in una, la propria di spettatore e assistente e sopravvissuto insieme a quella protagonista di suo fratello, così che si legge sorprendendosi a prender parte per ciascuno dei due, pur congratulandosi col proprio scampato pericolo.

Questo poco e improvvisato, per raccomandare un gran libro. E per annotare, a pie’ di pagina, che è anche, molto riservatamente, un gran libro su padre e madre dei due fratelli.

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