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piccola posta

Dalla parte di chi è al fronte

Adriano Sofri

Chi legittimamente rifiuta di battersi va rispettato, ma non ha una superiorità morale. I soldati combattono anche in loro nome. Il dissenso rispetto a una campagna nonviolenta che ancora non distingue tra aggressore e aggredito

Odessa, dal nostro inviato. Fra i miei amici più stretti, e dai quali più regolarmente dissento, annovero Mao Valpiana e la sua Azione nonviolenta. Grazie a lui e al Movimento nonviolento, “nell’ambito della mobilitazione di Europe for Peace” vengo a sapere della “Campagna di obiezione alla guerra”: guardami, signore, signora, dalla tentazione di fare dell’ironia sull’amore per i titoli e le sigle. E’ un fatto che la Campagna ha in questi giorni sviluppi cui assegna una speciale importanza, e in particolare la visita comune in Italia di tre giovani donne, militanti a sostegno di obiettori di coscienza, renitenti alla leva e disertori russi, bielorussi e ucraini. Si chiamano Kateryna Lanko, Darya Berg e Olga Karach. Lanko è ucraina ed è l’unica a condurre la sua azione nonviolenta e per l’obiezione di coscienza dal suo paese, da Kyiv, e mi auguro sinceramente che possa continuare a farlo in piena libertà, tanto più significativamente perché nel suo paese vige la legge marziale. Che non vige in Russia, dove legge marziale vorrebbe dire che c’è una guerra, che è esattamente quello che la legge in vigore vieta di dire e di pensare: dunque la russa Darya Berg è stata costretta a riparare in Georgia, da dove continua ad animare la mobilitazione attraverso una rete Telegram di 300 attivisti intitolata “Va’ nel bosco”, che è un sano invito a espatriare clandestinamente e insieme a mandare le autorità a quel paese.

Olga Karach è una giornalista bielorussa accusata di “terrorismo” e perciò riparata in Lituania. Insieme, le tre coraggiose militanti e ormai amiche hanno partecipato mercoledì all’udienza di Papa Francesco, e se ne sono dette rinfrancate: “L’ho preso come un giuramento – dice Olga al Fatto – userà la potenza diplomatica del Vaticano per fermare il conflitto. Potrebbe far cambiare idea ai politici di Varsavia che hanno chiuso la frontiera ai disertori bielorussi”. Dice che nel suo paese “43 mila sono stati richiamati alla leva, solo 6 mila hanno risposto”, benché sui disertori incomba una condanna a 25 anni “o la pena di morte”.  Mi piace tutto questo. Trovo stolido, ormai da un anno, il rifiuto dei paesi confinanti con la Federazione russa, a cominciare dalla Finlandia e dai baltici, di chiudere le frontiere ai cittadini russi in fuga dalla guerra e dal regime. Trovo che al contrario accoglierli a braccia aperte sarebbe stata una prova di saggezza e di intelligenza, ridicolmente negata in nome del rischio di infiltrazioni per la sicurezza. La Russia è stata svuotata di una quantità e di una qualità dei suoi giovani cittadini che hanno ancora una volta “votato coi piedi” e a proprio pericolo contro il regime. 

Tuttavia io dissento dal mio amico Valpiana e dalla sua campagna: perché? Perché, ancora una volta, non fa distinzione fra aggressore e aggredito. E non a parole, attenzione: non sono così sciocche né così ipocriti. Dice infatti la russa Darya: “Finché ci sarà il regime, temo che la guerra non finirà, bisogna lottare contro Putin, per la pace”. Le parole sono in salvo. I fatti sono altra cosa. Il fatto è che la guerra viene condotta su un unico territorio, quello dell’Ucraina. Quello russo non è toccato né minacciato dall’Ucraina né da alcuno dei suoi alleati. Il giovane – e nemmeno giovane, l’uomo, il cittadino libero, il detenuto ricattato lusingato e reclutato dalla sua galera, in Russia, obbedendo accetta di andare a uccidere distruggere violare saccheggiare, ed essere ucciso, a casa d’altri. L’obiezione di coscienza, rara com’è e costosa, quella che esige da un principio – tu non imbraccerai un’arma – il costo della persecuzione, della denigrazione, della galera, non deciderà mai della sorte di una guerra. Potranno farlo la renitenza alla leva, la diserzione, quando un impulso di sopravvivenza e una rivolta all’ingiustizia e al sangue avessero la meglio sulla disciplina e i suoi sadici castighi – un colossale esercito di contadini russi uscì così dalla Prima guerra mondiale. Ma che cosa succede dall’altra parte, dalla parte in cui chi prende le armi sta coi piedi e col cuore sulla propria terra e ha vicino a sé la propria casa, la propria città, i propri cari – la propria fottuta amata bandiera? 

Credo che ciascuna, ciascuno, debba dire a se stesso e agli altri che cosa farebbe, o almeno che cosa riterrebbe giusto fare, anche se gliene mancasse il coraggio e gli tremassero gambe e polsi. In Ucraina sarei solidale concretamente, se me ne capitasse l’occasione, con chiunque, per qualunque sua causa – la paura, per dirne una – volesse sottrarsi al servizio delle armi. Ma non gli riconoscerei una superiorità morale, e tanto meno una promessa di avvicinamento al desiderio della pace, rispetto alla decisione di chi si batte con le armi, accanto ai suoi coetanei e commilitoni, contro le armi dell’invasore. Quelli che incontro non sono invasati cultori della bella morte, sono intrisi del fango e del sangue di compagni e nemici, sono tristi e risoluti di ciò che è toccato loro, alla loro generazione. Si ricordano che esiste un’altra vita, crepano, quando crepano, preparandola per sé e almeno per i propri.

Chi decida di impegnare la propria energia umana e le proprie risorse materiali per aiutare i propri simili renitenti a scampare al fuoco e alla trincea sia ringraziato, tanto più se prima o poi le autorità costituite gliene presenteranno un conto. Ma non dimentichi la differenza. C’è qualcuno che, combattendo, ammazzando, morendo, sta impedendo che il suo paese venga annesso alla grande galera che è oggi la Federazione russa. La grande galera universale dalle cui prigioni particolari si esce per andare a marciare ubriachi contro il fuoco: sei mesi, poi l’amnistia per gli avanzi, e qualche anno supplementare di ubriachezza disarmata. Ho un’ammirazione generica, sulla fiducia, per le tre donne giovani russa, bielorussa e ucraina che il disgusto per la violenza ha reso amiche: ma ho una forte riconoscenza per gli ucraini che combattono per non essere sopraffatti e asserviti, e così facendo danno una speranza a quelle tre donne, al Papa Francesco e al mio caro amico Mao Valpiana, che il cielo gli dia salute. E lo salvi dalla tentazione, lui e chiunque, di nominare Alexander Langer invano.