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Se questa è guerra. L'abisso di Bucha e l'anestetizzazione del crimine

Adriano Sofri

"Questo è quello che succede in tutte le guerre", si dice, e quindi sarebbe ora di smetterla con la guerra. Certo, ma finché ciò non avviene, è bene che la cosiddetta comunità internazionale continui ad avvertire che c’è una differenza fra chi indossa una divisa e chi no

Scrivo di una sensazione provata di fronte a molte reazioni a Bucha (il cui record è già insidiato) e che chiamerò di anestetizzazione. Non mi riferisco ai dubbiosi – siano benedetti, purché non facciano del dubbio il punto di arrivo – e tanto meno ai negazionisti, siano più o meno maledetti. Mi riferisco alle persone che non si sono concesse nemmeno il tempo di un brivido, nemmeno un minuto di raccoglimento, per precipitarsi nella dichiarazione che “questa è la guerra, questo è quello che succede in tutte le guerre”, spesso esemplificando col catalogo rilegato dei precedenti, e richiudendosi nella fortezza morale: “No alla guerra, no a tutte le guerre!”. Ma non è sulla questione morale che voglio fermarmi, se non indirettamente, attraverso le conseguenze di fatto della proclamazione retorica e del corollario anestetico. “Non esistono crimini di guerra, è la guerra il crimine!”. Ben detto, come dissentire? Solo che la leggera scorza di civiltà che abbiamo messo sopra la ferocia universale, e solo all’indomani, nei molti indomani, degli abissi di quella ferocia, è fatta di riduzioni, di arginamenti, di tamponamenti. Di diti di bambino infilati nel buco della diga. 

Userò, perché la mia argomentazione non sembri pregiudicata, l’Avvenire di ieri, giornale e direttore per i quali simpatizzo. Marco Tarquinio, nell’editoriale intitolato “Il solo volto della guerra”, dice proprio quello che discuto: “Impariamolo una volta per tutte: i corpi straziati di Bucha non sono un’eccezione atroce, sono il volto e il corpo della guerra. Questo è il mostro, questa la ferocia. Sempre. In ogni conflitto, e anche nella guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina” (infatti Tarquinio, così come il Papa Francesco, non esita ad attribuire la responsabilità della guerra). Ma l’indiscutibile verità, che la guerra, ogni guerra, scatena la ferocia e spoglia gli umani dell’umanità, ha preceduto (e anestetizzato) il sopralluogo su Bucha, il suo viale dei cadaveri, delle unghie smaltate, delle biciclette e dei cani, le sue cantine, la sua fossa. E figuriamoci se Tarquinio e il Papa Francesco non hanno il cuore stretto. Ma quel titolo, “Una volta per tutte” – così somigliante al “Mai più” sul quale si infrange la nostra tempra – distrae involontariamente dal fissare “questa volta”: “il mostro” come si è ripresentato nel mese di marzo di quest’anno, in quel sobborgo, in quel paese. Se il mostro è sempre lo stesso, partorito da una stessa guerra, a che pro distinguere dei crimini di guerra, costruire un tribunale internazionale, pretendere il rispetto di corridoi umanitari? Scrive Tarquinio: “Perché le guerre si accendono e proseguono solo se le dichiariamo necessarie e le accettiamo come inevitabili, se le edulcoriamo e le acclamiamo come liberatrici, se le immaginiamo asettiche e precise come un videogioco...”. E’ vero, intimamente vero, e però è insieme falso, non perché menta, ma perché elude la realtà e il fatto compiuto. La guerra d’Ucraina, come Tarquinio ha appena ridetto, non si è “accesa e proseguita” perché l’abbiamo dichiarata necessaria e accettata come inevitabile, e tanto meno edulcorata e acclamata liberatrice e immaginata come un videogioco. L’hanno subita e accettata gli ucraini per difendersi, sé stessi e l’idea che hanno di sé stessi; e noi, ciascuno a suo modo, con loro. 

Il passato umano è insieme un progresso e un fatto compiuto. Il fatto compiuto, l’armamento nucleare, la devastazione e l’avvelenamento dell’ambiente, la naturalizzazione del privilegio, ci sta di fronte come un ostacolo pressoché insormontabile, e per provare a sormontarlo abbiamo piantato alcuni fragili chiodi sulla sua parete liscia e impassibile. Abbiamo fatto un processo, a Norimberga e a Tokyo. Roba da vincitori, certo, e attenti più a prevenire i pretesti di nuove guerre che il genocidio – non era nemmeno nominata a Norimberga, quella parola nuova. Abbiamo via via fissato principii e norme come quelle che, nella seconda pagina dello stesso Avvenire di ieri, Mariapia Garavaglia, in nome della Croce Rossa che presiedette, elenca così: “Non passare per le armi il ferito, proteggere i prigionieri, utilizzare una forza proporzionale, non torturare i prigionieri, non coinvolgere i civili e i non belligeranti, gli anziani e i bambini”. Non bombardare gli ospedali. “Non sparare sulla Croce Rossa”. “Un emendamento all’art.5 del Patto di Roma (2002, istituzione della Corte penale permanente) ha introdotto il crimine di aggressione”. (Il titolo dell’articolo mi è sembrato incongruo: “Nessun Diritto ormai può contenere il crimine-guerra”. Tanto più che il testo dice anche: “Il diritto umanitario non consente equidistanza fra chi lo calpesta e chi vuole che sia mantenuto in campo”). Tribunali, ancora solo ad hoc, per la ex Jugoslavia, per il Ruanda, per la Cambogia, hanno potuto, sia pure fra mille ostacoli, processare e condannare. 

Un’assolutezza che vuol essere radicalità ed è tentata di sbarazzarsi dei piccoli passi, dei crimini da codice penale di fronte all’immane, inscalfibile codice morale, risponde a un impulso generoso e dissipato. Quasi dieci anni fa ci fu una discussione accanita attorno alla (famigerata, perché severamente minacciata e poi ignorata) “linea rossa” di Obama in Siria contro le armi chimiche. Assad se ne fotté bellamente e infierì con le armi chimiche, ma è altro affare, cattivo ricordo di Obama e di Francesco, occasione d’oro per Putin. Anche allora, qualcuno credette di obiettare alla distinzione: forse che le cannonate e le granate e i cecchini non uccidono come il gas sarin? 

Ieri ho letto su Facebook il post di Bastiana Madau, una studiosa di filosofia, che esponeva nitidamente la questione: “La guerra viene ancora trattata come un mestiere che ha la sua deontologia, perciò si distinguono i cosiddetti crimini di guerra dagli altri atti delittuosi perpetrati con indosso una divisa. Sarebbe invece ora, ed è sempre troppo tardi, che l’umanità interiorizzasse il concetto che la stessa guerra è un crimine e che essa non va fatta per nessun motivo”. Sarebbe ora, infatti. Ma finché non avviene, e avviene invece che qualcuno muova una “operazione militare speciale” inondando un paese con le sue bande armate, è bene che la cosiddetta comunità internazionale, tutte e tutti noi, continui ad avvertire che c’è una differenza fra chi indossa una divisa e chi no, e fra gli atti paurosi e impauriti commessi da chi indossa una divisa. Una volta ho visto un video del bravissimo Ettore Mo sulla montagna di Shah Massoud, il leone del Panshir, e c’era anche Gino Strada, e in un punto esclamò: “Ma questo è un crimine di guerra! E l’Onu dov’è?”.

Visto che ci sono, ho una postilla. E’ vero che il nome di guerra è sempre più indebito, almeno da quando le armi sono diventate così fatali, e da quando le ferocie civili hanno soverchiato i conflitti fra gli stati e gli eserciti regolari. Chiamarle guerre rischia perfino di nobilitarle. L’altra faccia della cosa sta nella trascurata motivazione per la quale Putin tiene così rigorosamente alla sua grottesca definizione: perché la guerra d’aggressione e d’invasione, la sua in Ucraina, è appunto un crimine di guerra.