Vladimir Putin e Ramzan Kadyrov (Ansa) 

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La tragedia del popolo ceceno, andato e mandato in pezzi in modo atroce

Adriano Sofri

Forse non ci sono esempi paragonabili di una gente il cui destino tragico vuole macchiare chiunque ne porti ancora orgogliosamente il nome. Le generazioni uscite dalla guerra addestrarono combattenti sui fronti più infami. Fino all'abbraccio con Putin

Marina Ovsyannikova. E poi i ceceni. Quelli che infieriscono a Mariupol sono la schiuma ultima, la feccia, di un popolo che fu fiero e intrepido. C’era la guerra in Cecenia quando ci andai, poi la chiamarono “la Prima guerra”, tra il 1994 e il 1996. Ci tornai poco dopo, nell’intervallo in cui ebbero la loro repubblica indipendente. Un popolo di poco più di un milione, in un territorio grande appena come la Calabria, sconfisse l’esercito russo che non badava a spese. Quando si parla di Grozny rasa al suolo nel 1999, “la città più distrutta al mondo” (Aleppo era là da venire) – la chiamarono “la Seconda guerra” – bisogna ricordare che era già stata distrutta tre anni prima e stentatamente rimessa in piedi. Ceceni di mezza età, donne e uomini, non uno era nato in Cecenia: tutti nella deportazione staliniana, in Siberia, nel Kazakistan. Erano tornati, i sopravvissuti, solo dai tardi anni 50.

La Seconda guerra fu la prova del fuoco del rancoroso agente del Kgb cui Eltsin affidò il potere, perché non facesse ombra. Putin vinse coi mezzi di chi, sconfitto, si vendica con la terra bruciata: il destino che minaccia Kyiv. La diaspora di quel popolo intrepido è stata terribile, e la sua tragedia peggiore fu il tradimento e la rivalità fratricida. Avevano fieramente sognato l’indipendenza del Caucaso del nord, diventarono islamisti e terroristi. I loro nomi si macchiarono di infamie come Beslan, come il teatro Dubrovka, in combutta di fatto con l’operato di Putin. Furono ammazzati a distanza, quelli che avevano scelto l’oltranza e quelli che avevano cercato la moderazione e l’appello laico alla comunità internazionale. Il pagliaccio Kadyrov che spadroneggia ospitando celebrità parigine e nostrane e facendo dei suoi gli scherani di Putin, è l’orfano di un notabile che vendette sé e i suoi nel momento della sconfitta.

Famiglie cercarono scampo in Europa, in Turchia. La nuova generazione addestrò i suoi combattenti sui fronti più infami: al Shishani, il Ceceno, ucciso trentenne nel 2016, era il capo militare dello Stato islamico, e i suoi i più fanatici e temibili combattenti. Contro piccoli popoli, come il loro, cento volte perseguitati. Nella diaspora tedesca, successe che esuli ceceni organizzassero spedizioni punitive contro esuli yazidi. Un giovane ceceno uccise tre persone, uno era un bambino di 8 anni, alla maratona di Boston nel 2013 – gli è appena stata confermata la condanna a morte. Un adolescente ceceno adottato in Norvegia ebbe la temerarietà di reagire con una sassata ad Anders Breivik nell’isolotto di Utøya nel 2011: quando gli chiesero come avesse osato spiegò che suo padre gli aveva insegnato che bisogna opporsi. E’ stato un diciottenne rifugiato ceceno a decapitare nell’ottobre 2020, nella periferia parigina, il professore di storia Samuel Paty.

In Francia e altrove la mafia cecena si contende la piazza con quelle più tradizionali. In Ucraina, si stanno di fronte dal 2014, pretoriani di Putin e reduci della breve Repubblica di Ichkeria in esilio. Non so se ci siano esempi paragonabili di un popolo andato e mandato in pezzi così spaventosamente, il cui destino tragico vuole macchiare chiunque ne porti ancora orgogliosamente il nome. Se mai i capricci della storia ne condurranno gli eredi a tornare nel luogo del delitto che si perpetrò sui loro avi e di cui i loro avi si resero complici, sarà terribile quel giorno del giudizio. Intanto, a Mariupol si battono, col coltello fra i denti, e si fanno fotografare, i peggiori, al servizio del peggiore dei loro nemici.

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