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La sfida incerta e sorprendente di Gabriel Boric parte da Punta Arenas

Adriano Sofri

Nella terra dove è nato il giovane presidente si è circondati da un’assenza recente e spaventosa. La memoria di un genocidio: quello del popolo Selknam, sterminato dai colonizzatori

"Vengo dalla Patagonia australe, dove comincia il mondo, dove si fondono tutti i racconti e l’immaginazione, in quello Stretto di Magellano che ha ispirato tanti bei romanzi”. È il punto di vista di Gabriel Boric, suona strano a noi, che in quel sud estremo, la Patagonia australe, la Terra del Fuoco, non vediamo l’inizio ma “el fin del mundo”, la fine del mondo. 

Gabriel Boric ha dunque 35 anni, l’età minima per candidarsi alla presidenza. I primi 18, più della metà, li ha trascorsi a Punta Arenas, dov’era nato. C’è da fidarsi. Sono andato più volte a Punta Arenas. Una volta, nel 1992, con Roberto Pistarino, giravamo un documentario sulla Terra del Fuoco. Ci imbarcammo sul rompighiaccio della Marina militare destinato alla base cilena in Antartide. Pinochet aveva lasciato la presidenza ma era ancora il comandante in capo delle forze armate. Cenavamo alla tavola degli ufficiali, e ogni volta c’era un brindisi solenne al comandante supremo. Io ero quello di Armi al Mir, non c’era ancora Google. 

Punta Arenas, se avete letto “In Patagonia”, è la città del parente di Chatwin, il capitano Charles Milward. Ha meno di 150 mila abitanti, è la capitale della regione meridionale di Magallanes e dell’Antartide cilena, si trova a 53° di latitudine sud, nemmeno due gradi più a nord della rivale Ushuaia, capoluogo della Terra del Fuoco argentina. Fu fondata nel 1848, una colonia penale e una guarnigione: prigionieri e carcerieri si fronteggiavano a morte, finché insorsero insieme contro la vita infame di fame e freddo. Alla fine dell’Ottocento, il passaggio marittimo fra Atlantico e Pacifico – prima dell’apertura di Panama, 1914-1920 – e poi la corsa all’oro, l’allevamento ovino e il petrolio attirarono una vorace immigrazione europea. Ha un Museo salesiano e un Museo regional de Magallanes che era il palazzetto dimora della famiglia Braun-Menéndez, la più ricca tra quelle dell’età dell’oro cittadina. C’è un meticoloso dipinto a olio di una coppia di oche, ottenuto a Malaga da un marchese Torreblanca in cambio dell’affitto non versato dall’autore, José Ruiz y Blasco; Torreblanca lo regalò per le nozze di Mauricio Braun e Josefina Menéndez, che se lo portarono emigrando nel sud del Cile. Il fatto è che Blasco era il padre di Picasso, e il donatore del quadro assicurava che alla sua fattura avesse messo mano il piccolo Pablo, alle zampe delle oche, in particolare. 

Non poteva mancare una statua a Magellano: è datata 1920, è colossale, e farà la felicità dei demolitori quando la voga scenderà fino laggiù. Il gran navigatore di bronzo troneggia su un altissimo piedistallo, uno stivale posato sulla canna di un grosso cannone. Sotto, sui quattro lati, due nudi femminili, sirene, si alternano a due muscolosi indigeni raffiguranti la Patagonia e la Terra del Fuoco. Il piede nudo sporgente dell’indio luccica di uno splendore ramato perché toccarlo vuol dire tornare. Poco fa l’arredo monumentale della piazza è stato completato dal dono vicentino della copia del busto di Pigafetta, il sobresaliente, geografo e gran diarista di bordo di Magellano. 

Gabriel Boric aveva 4 anni quando il regime di Pinochet morì di vecchiaia nel 1990 – lui crepò novantunenne nel suo letto nel 2006, la sua vedova, complice e istigatrice è durata fino a questa vigilia, 99 anni. Boric sa la storia, non ne è l’erede. Mira a uno stato del welfare, a una scuola gratuita, a una salute pubblica, alle pensioni. Sa che cos’è il femminismo. Si propone la difesa dell’ambiente. È solidale con la sinistra latino-americana, ostile alle sue prevaricazioni dei diritti umani e civili. Non ha un compito facile, lui stesso si chiede se ne sarà capace. Si appoggerà ad alcune e alcuni, molti cercheranno di deviarnelo. 

Non smetto mai di sorprendermi, benché ne abbia viste: dev’essere questa irriducibile sorpresa, l’umanità. Ora mi sono sorpreso per la saggia pensosità di non pochi commenti al risultato dell’elezione presidenziale cilena: il giovane Boric non sarà troppo giovane, non esporrà il paese a un’altra avventura chavista (non è chavista), non ripeterà il massimalismo allendista, non segnerà un salto nel buio? La luminosa alternativa di questi commentatori, i più apparentemente varii, stava in un epigono di Pinochet, fellone, traditore, dittatore, torturatore, e del modello dei Chicago boys che qui più impudentemente era riuscito ad affamare i poveri e saziare i ricchi, e vantarsene. 

C’è quella parte della sua biografia che mi interessa soprattutto. Più del movimento studentesco nel quale si mise in luce. Viene prima del suo trasferimento universitario a Santiago. Fra gli immigrati europei che a Punta Arenas fecero fortuna i croati ebbero una parte importante, soprattutto dalla Dalmazia, da Spalato, da Brač. Mateo Martinic Beroš che nel 1999 ha pubblicato una storia dell’immigrazione croata, calcola che nel 1914 fossero già quasi un terzo degli stranieri in città. Oggi, in tutto il Cile, i discendenti croati sono 400 mila. Di origine croata è il padre di Boric, ingegnere impiegato in un’azienda petrolifera; sua madre è di origine catalana. Gabriel Boric ha fatto i suoi studi alla British School di Punta Arenas, come i figli di buona famiglia. Ma a Punta Arenas si è circondati, assediati, da un’assenza recente e spaventosa. Compensata dalle fotografie, niente è più fotogenico della memoria recente di un genocidio. Gli Yamana – yaghanes, gli alacaluf nomadi del mare, pescatori dalle canoe e raccoglitrici di molluschi – i grandi cacciatori di guanachi Ona, o Selknam. Sterminati dai bianchi cacciatori d’uomini e rapitori di donne e bambini, dalle malattie importate, dall’alcol, dalle superstizioni dei missionari. Benedetti fuegini, dicevano, dovete mettere la pelle del guanaco col pelo dentro, per scaldarvi. Ma anche i guanachi la portano col pelo fuori, rispondevano. Insegnavano a lavarsi del grasso puzzolente di cui erano coperti, e quelli si ammalavano e morivano, come le mosche. Il ragazzo Gabriel avrà visto le fotografie di Julius Popper, ne avrà letto le storie, si sarà interrogato sulle imprese di quell’ingegnere ebreo rumeno che si impadronì della Terra del Fuoco, batté moneta d’oro, stampò francobolli, diede la caccia ai fuegini coi fucili e i cani e si fotografò, lui e le sue squadre, coi loro cadaveri. Pagava in oro le orecchie degli indi, finché per non essere truffato pretese che gli portassero le teste intere. Morì a Buenos Aires – a 35 anni! – nel 1893, e lo sterminio dei Selknam era vicino a compiersi. 

Il presidente del Cile, Gabriel Boric, nel suo primo discorso ha salutato e ringraziato nelle lingue dei popoli originari, il mapudungun dei mapuche, il rapanui, l’aymara. “Poō nui, suma aruma, pün may, Chile”. Si è rivolto a “tutte le persone, tutti i popoli che abitano il luogo chiamato Cile”. La storia dell’Araucanía è tragicamente antica. Non so quanti siano i mapuche nel Cile di oggi, e quanti abbiano il coraggio e il desiderio di dichiararsi tali: forse 600 mila, forse più di un milione e mezzo – molti meno in Argentina. Grandi proprietari terrieri, squadristi al loro soldo, bande razziste, carabineros, li hanno impunemente trattati da narcotrafficanti o da terroristi. Nello scorso luglio, Boric aveva detto: “Non c’è un conflitto mapuche, c’è un conflitto fra lo stato cileno e un popolo che ha diritto alla autodeterminazione”. 

Ho letto che il simbolo della campagna elettorale di Boric era un cipresso che cresce al centro di Punta Arenas: da piccolo ci si arrampicava su. Non è facile.

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