Uno scorcio del parco nazionale Torres del Paine, in Patagonia. Foto LaPresse

Bruce Chatwin, esotico chic

Michele Masneri

Viaggi, vita scapestrata, libri perfetti e poi una moda: trent’anni fa moriva lo scrittore inglese. Con la sua Patagonia aveva rilanciato l’idea di grand tour

Che brand, Chatwin. Con la sua vita elegantemente scapestrata e i suoi libri così perfetti ha generato tante mode anche redditizie: le agendine Moleskine su cui annotava i suoi appunti sono state infine quotate in Borsa. I suoi libri, un regalo perfetto per qualunque signora da cui si andava a cena, perché Chatwin (con l’aggettivo derivato, chatwiniano), era diventato un marchio di lusso, un Hermès della letteratura che si porta su tutto. Ha fatto più di tante pro loco e film commission per diverse località. La Patagonia dovrebbe, se non l’ha fatto, fargli dei francobolli o almeno un monumento. Prima del libro chatwiniano – “In Patagonia”, 1977 – era infatti una landa desolata dove nessuno sano di mente avrebbe messo piede, e da lì in poi invece meta per turismi esclusivi di massa; a un certo punto pure Jovanotti partì con, disse, “in una tasca la Bibbia, e nell’altra Chatwin” (sic). In Patagonia Chatwin c’era andato – cosa c’è di più chatwiniano – su consiglio di una anziana elegantissima designer irlandese, Eileen Gray, che a Parigi “abitava a Rue Bonaparte, e nel suo salotto era appesa una carta della Patagonia, dipinta a tempera”. “Ho sempre desiderato andarci”, dissi. “Anch’io”. “Ci vada per me”. “Andai, telegrafai al Times. Andato in Patagonia”. C’è tutto Chatwin in questa storia: leggendarie vecchie, decorazione d’interni, apparizioni e sparizioni (un’altra volta era sparito per andare a Timbuctù). Anche, un’epoca di giornali con budget doviziosi, un mondo perduto di eleganze giornalistiche, in cui Chatwin aveva cominciato a fare interviste e profili di personaggi per il Sunday Times Magazine. Mandava lettere battute a macchina di questo tenore, come all’adorato Ernst Jünger: “Caro Herr Jünger, il Sunday Times ha una tradizione di interviste a grandi europei – io personalmente ho appena fatto André Malraux a Parigi. Il mio tedesco è rudimentale, ma so che il suo francese è splendido. Potrei avere l’onore di intervistarla?”. Prima che giornalista o essayste era stato un impiegato di Sotheby’s, la casa d’aste che tanto contribuì al marchio e alla storia chatwiniani, col corollario immaginifico di intrighi artistici. Poi era partito: rilanciando un’idea di grand tour sopita per tanti anni, mettendo insieme i viaggi di ricognizione di mitici signorini e signorine inglesi e francesi dell’Ottocento, con quel ritorno d’oriente che negli anni Ottanta esplode in Europa e negli Stati Uniti: Salvatores fa “Marrakesh Express”, Bertolucci fa il “Tè nel deserto”. La tecnologia ci mette il resto, permettendo accessi tutto sommato comodi, ma ancora non proprio per tutti, a un oriente ancora intatto. Non è ancora l’experience locale a chilometri zero Airbnb, è un turismo ricercato e reale e però sterilizzato e rassicurante che finisce dritto nelle copertine Adelphi in colori con filtro Gingham.

   


Era un Salgari che raccontava un esotico con interni in pelle. L’effetto era opposto: quello di leggerselo tutto, e non partire mai


    

Chatwin era un Salgari che raccontava – però non da fermo – questo esotico con interni in pelle. L’effetto era opposto: quello di volersi subito mettersi in poltrona, leggerselo tutto, e non partire mai, risparmiandosi le polveri e lo zaino: infatti ebbe molto successo soprattutto in Italia, un paese non proprio di forsennati viaggiatori, e le professoresse che compravano in massa i suoi libri ton sur ton erano poi quelle che si sentivano deportate per dover andare a insegnare da Palermo a Bergamo. Era un mondo prima di Google Maps e di Uber e di TripAdvisor, e non era soprattutto ancora scoppiata la mania del cibo: Londra era ancora fish and chips e non una capitale gastronomica (se l’avesse sospettato!). Fosse vivo oggi, Chatwin sarebbe forse un Bourdain costretto a decifrare le civilizzazioni tra un raviolo e un edamame (già, era ancora un’epoca in cui si poteva viaggiare senza dover parlare di ristoranti: e avrà mangiato anche lui in localini con mangiarini sopraffini, però c’è da scommetterci che non avrebbe ritenuto molto chic soffermarsi su intingoli o panature o impiattamenti, preferendo indagare e riportare musei, persone, gesti. Parlare tanto di cibo, non essendo camerieri o ristoratori, era considerato non tanto elegante in quegli anni: indice di bulimia, o scarsa signorilità, come discutere di piedi o di soldi).

   

 Bruce Chatwin. Foto dal profilo di Viaggio Routard via Flickr

   

Era scrittore e doveva essere soprattutto conversatore estremamente chic: i suoi “live” saranno stati davvero fantastici, ossessivi su pattern fru fru – il colore rosso deriverà dal fuoco o dal sangue? Perché in certi paesi è proibito? Perché in altri significa rivoluzione? (era un suo tormentone) – come testimoniò Martin Amis, che prima di conoscerlo lo detestava, considerandolo poco più d’una sartina con la Freccia Alata, e dopo una chiacchiera ne rimase incantato come chiunque. Affabulatore in utroque, anche con una storia di letti non indifferente, seppur mantenendo un’aria adolescente asessuata e angelica. Chat-twin, chiacchiera doppia, ricostruiva di sé in una sua genealogia fantasiosa.

   


C’era l’horreur du domicile, il non saper star fermi in un posto, e soprattutto l’orrore della middle class. E’ morto giovane


    

Aveva cominciato a scrivere dopo essersi licenziato dalla casa d’aste, appunto. E prima, adolescente borghesemente scapestrato, studi da architetto, ma terrorizzato dalla matematica (one of us!). Entra nel 1958 a Sotheby’s come “inserviente”; messo a trafficare “nella ceramica cinese e nella scultura africana”. Ha “occhio assoluto”, anche per anziani sensibili al fascino biondo: frequenta cigni di Park Avenue e Somerset Maugham, André Breton e George Braque “con giacchetta bianca di pelle, berretto bianco di tweed e sciarpa di chiffon lilla”. “La mia passione è dire ai collezionisti che i loro pezzi sono un falso”. Una dama gli dice: “Il mio Rembrandt non lo mostro a un ragazzino sedicenne!”.

   

La famiglia forse fantasticata, col papà marinaio come si vuole sempre assente, le zie zitelle, vasta aneddotica bella pronta per inventarci sopra mitomanie. “Ricordo la fantastica sradicatezza dei miei primi cinque anni”. Parenti errabondi: “Il cugino Charlie in Patagonia, il cugino Victor in un campo di cercatori d’oro dello Yucon, lo zio Robert in un porto d’oriente”. Tutte le letture giuste: Byron subito, a scuola, subito role model, l’eroe britannico errante, gay e classicista (come lui al Marlborough college). Chatwin andrà anche sul Monte Athos, luogo caro al poeta-soldato, a convertirsi alla chiesa ortodossa. Sulla “via dell’Oxiana”, come nel libro di Byron del ’33, Chatwin era partito per l’Afghanistan. “Nel 1962, prima che i turisti marxisti lo rovinassero, si poteva partire per l’Afghanistan con le stesse aspettative, diciamo, di un Delacroix diretto ad Algeri. Per le strade di Herat si vedevano uomini con vertiginosi turbanti passeggiare mano nella mano, una rosa in bocca e i fucili involti in chintz a fiori”. Poi c’era Ruskin, lo stilista delle rovine, e poi Borges, il labirintico cieco: si incontrarono una volta a Buenos Aires su un palcoscenico, con Chatwin già famoso a dichiarare che gli era impossibile partire senza portarsi dietro un Borges: era come partire senza impacchettare uno spazzolino da denti (Borges mormorò: “Molto antigienico”). E anche Chatwin a un certo punto dirà di aver perso la vista, per aver visto troppa arte, o bellezza, o chissà che. Altre influenze: “Un viaggio in Armenia”, del poeta russo Josip Mandelstam, l’opera omnia della grande bizzarra britannica Edith Sitwell, una di quelle inglesi di stanza nel Chiantishire, e i romanzi-diari di viaggio frammentati di Cyril Connolly. Il frammento era un’altra chiave del successo chatwiniano. I suoi romanzi erano infatti estenuati ma mai estenuanti; una lingua molto asciutta, pochissima psicologia, come nei racconti di Ivy Compton-Burnett. Descrizioni fulminanti: “abbiamo di fronte un uomo nel bel mezzo dell’occupazione di Parigi con i bombardieri che gli volano sopra la testa e lui se ne sta sul tetto con lo champagne in mano a fare piccole osservazioni”, per l’amato Jünger.

       


Martin Amis, che prima di conoscerlo lo detestava, dopo una chiacchierata ne rimase incantato come chiunque


    

E incipit perfetti per reportage smaglianti: “Nell’isola di Capri sono vissuti tre narcisisti che costruirono ciascuno una casa sul ciglio di una scogliera”. Che bravo: soprattutto quando raccontava le case e i ricchi e la sua biografia vera o immaginaria, costruita attorno a un rinnovato mito dell’esploratore inglese, un Peter Pan molto sartoriale e coloniale con Moleskine, sahariana, camicia oxford blu intonata agli occhi. Nel vestiario e nell’arredo e nell’osservazione nulla era casuale. “La sua più grande dote era la generosità visuale”, ha scritto la sua biografa ed editor Susannah Clapp. Nel minuscolo appartamentino di quarantacinque metri quadri di Londra, disegnato da John Pawson, e negli appartamenti sempre minimi, bianchi, come cabine di nave, giusto lo spazio per ospitare fondamentali reperti di viaggio, e “il lenzuolo del Re delle Hawaii”. Luoghi e “giri” classici, Patmos, la Francia del Sud, Parigi e New York, occhio assoluto da stilista-antiquario-arredatore. “Vidi un sofà che pareva uscito da un quadro di David. Di rigorose proporzioni classiche, con la vernice originaria grigio chiaro. C’erano cartellini di inventario del castello di Versailles, da cui si poteva desumere che era stato fatto per l’appartamento di Maria Luisa. Quella mattina, per mia fortuna, Mitterrand era stato eletto presidente, e i mercanti di Parigi non erano in vena di acquisti”.

   

Sempre utilizzando la tecnica assai smart del “succede sempre qualcos’altro”, che fa risaltare l’azione sulla pagina: quando esce il suo primo libro, primo grande successo, “Le vie dei canti”, c’era “uno sciopero dei controllori di volo francesi” e così “dovemmo attraversare la Manica in hovercraft”; prende il treno per Parigi, e due musicisti stanno provando una partitura seduti dietro di lui, “erano Rostropovich e Hanne-Sophie Mutter”.

   

C’era l’horreur du domicile, il non saper star fermi in un posto, e soprattutto l’orrore della middle class: a scrivere, sempre, tra i beduini o in antri di amici molto araldici. Mai da notai o commercialisti. Dalla baronessa bresciana Monti della Corte, moglie di Gregor von Rezzori, che teneva torre in toscana con i due cinghiali domestici Inkie e Pinkie, e poi arrivavano i Carabinieri per sbaglio, in cerca delle Brigate rosse. Il mondo chatwiniano girava su due voltaggi: quello lirico delle vie dei canti, del nomadismo esistenziale, e quello dell’aneddoto buffo. Il suo era un universo bonario sempre cosparso di nobildonne e mercanti di sete, dove accadevano inghippi veri o immaginati, ma mai drammatici. Un universo accogliente e circolare, una specie di famiglia felice tipo Balzac incontra Wes Anderson, con personaggi e luoghi ricorrenti al ralenti. Zarine, mercanti, poeti russi, preti ortodossi, collezionisti di porcellane, sultani, gemelli misteriosi, contesse baltiche, aborigeni e sciamani. Un mondo che, come le serie del Corsaro Nero, ti fa sentire protetto: niente di brutto succede mai veramente e anche i malanni non portano mai sofferenza vera: i cattivi non sono cattivi, mai (e l’angoscia, solo un filo, rimane sullo sfondo). Tutto ha senso, anche nella biografia: la morte per Aids era stata celata perché nell’universo chatwiniano lo stigma che aleggiava sul malanno, alla fine degli anni Ottanta, risultava soprattutto antiestetico; non era tanto la morte in sé il problema, piuttosto sarà parsa intollerabile una malattia così cheap, invece di un qualche esotico morbo contratto al cospetto di qualche maragià, come il “rarissimo fungo intestinale in Cina” che lo prende durante il pellegrinaggio sulle strade degli aborigeni, per scrivere i suoi Canti.

  


   Il frammento era un’altra chiave del successo chatwiniano. I suoi romanzi erano infatti estenuati ma mai estenuanti


   

Ebbe così la fortuna di morire giovane, cristallizzando il viso angelico in quella fortunata schiera cara agli Dei (muore a quarantotto anni ma lascia un’immagine di adolescente biondo, non certo di un uomo di mezza età). Negli ultimi anni voleva scrivere un romanzo “sulle quattro nazioni decadenti, Usa, Russia, Francia e Inghilterra”, voleva fare un’opera lirica su Florence Gould, la grande signora di San Francisco che durante la Seconda guerra mondiale aveva un salotto a Parigi che riuniva nazisti e Cocteau. Comprava costosi regali agli amici senza averne i soldi. “Dio ripiana il mio conto in banca”, diceva, ma era la moglie, Elizabeth, sposata a un certo punto con gran sorpresa di tutti, che annullava gli assegni e ridava indietro gli incauti acquisti. Morì il 18 gennaio 1989, trent’anni fa, e vi fu un commiato con funerale ortodosso nella cattedrale di Santa Sofia a Londra. Dove successero molte cose chatwiniane: Salman Rushdie fu assalito dai giornalisti, che appresero della fatwa pronunciata dagli iraniani durante la cerimonia. L’attore Peter Eyre, che veniva direttamente dalle prove del suo Re Lear in teatro, con barba e abiti shakespiriani, fu preso per un pope e interrogato a lungo da uno dei presenti al funerale su una possibile conversione. La cerimonia, tutta in greco, risultò incomprensibile a chiunque, l’unica parola in inglese essendo “Bruce”. Martin Amis, presente anche lui, disse che si trattava dell’ultimo scherzo di Chatwin ai suoi amici. Ma “Bruce” era naturalmente già da un’altra parte.

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