AP Photo/Jose Luis Saavedra 

Nelle urne di Santiago

Le elezioni in Cile potrebbero mettere in crisi la democrazia

Cecilia Sala

Per salvare un paese-modello servirebbe un voto adulto. Invece vanno forte due estremisti, uno comunista, uno ossessionato dalle "lobby gay"

Il Cile – che domenica 21 novembre elegge il nuovo presidente – è in guerra con se stesso da due anni perché non aveva mai fatto i conti con la propria storia. Nell’ottobre del 2019, nella metropolitana di Santiago, un gruppo di ragazzi salta i tornelli protestando per il rincaro del biglietto. I controllori provano a fermarli e inizia una discussione, ma dura poco perché nel frattempo tutti hanno cominciato a saltare i tornelli. Il governo pensa che si tratti di pochi teppisti e li liquida: “Si svegliassero prima la mattina” (il biglietto costa di più negli orari di punta, se viaggi alle cinque del mattino invece che alle sette, risparmi). Ma il giorno dopo si ritrova centinaia di migliaia di persone in piazza. I manifestanti saccheggiano i negozi e incendiano interi palazzi, tra cui quello dell’Enel che è la prima azienda elettrica nel paese. Interviene l’esercito. Le chat dei manifestanti si popolano di video girati dalle finestre in cui si vedono i militari che sniffano cocaina sullo schermo degli smartphone, dietro le camionette, prima delle cariche. Ci sono arresti di massa e poi violenze, torture e istigazioni al suicidio nei commissariati. Le proteste vanno avanti per mesi e i manifestanti non risparmiano niente, appiccano il fuoco anche a una chiesa. Durante un corteo, un militare ventenne prende un manifestante di sedici anni e lo butta giù da un ponte davanti ai telefonini che lo riprendono.

  

Il presidente aveva detto: “Siamo in guerra”. Ma le parole più interessanti erano state quelle di sua moglie, che diceva di sentirsi sopraffatta e che lei, fino a un momento prima, non aveva mai ipotizzato che così tante persone “ci odiassero”. Odiassero la classe dirigente che ha governato dal ritorno della democrazia a oggi. Che è stata capace di fare del Cile il paese che funziona meglio dell’America latina: il più stabile, il più sicuro e quello con il reddito pro capite più alto (molti colombiani, venezuelani, argentini cercano una vita migliore in Cile, il contrario non avviene). I politici liberali e moderati – di centrodestra e di centrosinistra – che si sentivano saldamente e meritatamente al comando, in quel momento scoprono di essere scollegati da una fetta enorme di popolazione diventata improvvisamente rumorosa. Che gli rimprovera non soltanto le diseguaglianze sociali, ma di non aver mai tagliato i ponti con l’eredità di Pinochet (per esempio il presidente è il fratello di uno dei più influenti ministri della dittatura) e di non aver mai osato mettere in discussione l’impunità e lo strapotere dei militari. Anche di essere tutti molto bianchi, mentre la maggioranza della popolazione è meticcia. E di altre questioni pratiche come il fatto che spesso chi fa lavori a basso reddito non riesce a mettere da parte quello che serve per un fondo pensione privato, e quando diventa anziano una pensione non ce l’ha. 

  

I manifestanti hanno chiesto e poi ottenuto un referendum per abrogare la Costituzione, che era ancora quella di Pinochet. Ma la nuova – scritta dai “cittadini eletti”, senza i parlamentari – sta diventando un elenco sconnesso di richieste utopiche e a volte contraddittorie. L’ultimo tassello di questa specie di rivoluzione sono le presidenziali di domenica, in cui la politica moderata degli ultimi quarant’anni sembra essere già stata spazzata via. I due favoriti sono un outsider di sinistra, Gabriel Boric, alleato del Partito comunista e che vorrebbe gettare via tutte le riforme che hanno reso il Cile democratico, il paese che conosciamo. E un populista di destra, José Antonio Kast, che rivendica i privilegi dei militari, infila le “colpe della lobby gay” in ogni discorso pubblico e vuole dare la caccia a chi è sceso in piazza perché li considera alla stregua dei terroristi.
 

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