Ridateci 30 anni, non 30 pesos. Cosa chiede il Cile

Appunti dalla rivolta, nel paese dove il rincaro della metro e gli slogan contro i Chicago boys sono spesso dei pretesti. Qui si fanno i conti con la propria storia

Cecilia Sala

Santiago del Cile. “Siamo in guerra contro un nemico potente e implacabile”, sono state le prime parole pronunciate dal presidente della Repubblica Sebastián Piñera da quando, in tutto il Cile, venerdì 18 ottobre si è alzata la protesta. 

 


Le morti accertate sono 18, i detenuti sono più di quattromila, quasi 500 adolescenti, e sono 180 le denunce di tortura 


  

“El pueblo unido jamás será vencido”, gridano nella piazza centrale – riprendendo lo slogan usato nell’estate del 1973 in sostegno a Salvador Allende – mentre i blindati della polizia e i carri armati dell’Esercito si dispongono sulle strade che confluiscono nella piazza per bloccarne l’ingresso e, contemporaneamente, le vie di fuga. “Quello che chiediamo non sono i trenta pesos, ma i trent’anni”, spiega Gonzalo Cabrera di Asa Plaza Yungay, una delle più attive tra le assemblee di quartiere che organizzano le mobilitazioni di queste settimane. I trent’anni dal 1990, dalla fine della dittatura. I trenta pesos – quattro centesimi di euro – invece, sono il rincaro del biglietto della metropolitana. Il pretesto che ha scatenato la prima manifestazione, iniziata con migliaia di cileni che saltano i tornelli senza pagare il biglietto, e conclusasi con atti vandalici e incendi nelle stazioni.

 

“Siamo in guerra”, ha detto il presidente riferendosi alle centinaia di migliaia di cittadini cileni in rivolta. “Si alzassero prima la mattina”, ha risposto il ministro dell’Economia a quanti si lamentavano per l’aumento del trasporto pubblico (in Cile il costo della metro è più alto dalle sette alle dieci, nell’orario di maggior affluenza). “Questi sono come gli alieni, siamo sopraffatti, non abbiamo gli strumenti per combatterli, dovremo diminuire i nostri privilegi e condividerli con loro”, ha detto la first lady, in un audio whatsapp filtrato di cui la portavoce del governo ha confermato l’autenticità con un tweet. Senza queste parole, senza il coprifuoco e lo stato di emergenza che ha portato i carri armati nelle strade (per la prima volta dai tempi della dittatura), forse la crisi politica che attraversa il Cile sarebbe più facile da ricomporre.

 

 

 

“Sono stati commessi degli errori: in un primo momento era difficile prevedere la portata che poi ha raggiunto questa protesta”, spiega al Foglio Luciano Cruz Coke, ex ministro della Cultura del governo Piñera, “forse siamo stati precipitosi nelle prime considerazioni. Ma non dimentichiamo i gruppi violenti che, per conquistare un ruolo nelle pur legittime manifestazioni, distruggono i mezzi di trasporto, di quel trasporto pubblico che serve ai più poveri: una mancanza di intelligenza, la loro, a cui bisognava rispondere”. Come rimediare adesso? “Bisognerebbe prendere in considerazione le più rilevanti tra le richieste dei cittadini e affrontarle”. Quali? “Le pensioni (quelle sociali sono di 121 euro al mese, ndr), l’assistenza sanitaria, il deterioramento di istituzioni in cui si sono avuti casi di corruzione”. 

 


“Non possiamo permetterci le botteghe chiuse a Natale, non possiamo tollerare che viga l’anarchia!”, dice un commerciante 


 

 

A lato di viale Alameda, il corso principale lungo il quale si articola il corteo, un signore abbassa la serranda di una panetteria, si ferma a osservare i manifestanti con le braccia conserte: “Dicembre è o dovrebbe essere il nostro momento fortunato, il periodo dell’anno in cui per le strade del centro passano più di tre milioni di persone al giorno”, spiega. “A Natale non possiamo permetterci le botteghe chiuse, non possiamo tollerare che nelle strade viga l’anarchia! Vogliamo la riapertura immediata di tutti i negozi che sono stati bersaglio di saccheggi, il governo deve aiutare noi commercianti”. Non fa in tempo a concludere la frase che dalla piazza si sente un boato. I manifestanti hanno divelto una delle due statue ai lati del monumento equestre. “Stanno facendo a pezzi quella del soldato, che rappresenta l’autorità, mentre hanno lasciato su la donna, che simboleggia la libertà”.

 

 

“In Cile non c’è una grande tradizione di partiti di massa, ma c’è una importante tradizione anarchica”, racconta Victor Rubio, 62 anni, anche lui in piazza. “Durante la dittatura in Argentina ci sono stati 30 mila desaparecidos, qui in Cile solo tremila, non perché Pinochet fosse generoso, ma perché aveva una strategia politica e militare diversa: in Argentina hanno preso chiunque, qui invece c’è stato uno sforzo di intelligence per colpire solo gli esponenti di peso nei partiti, quelli carismatici o con capacità di elaborazione strategica; per questo da noi la dissidenza si è dovuta manifestare in altri modi, più imprevedibili”. Risultato: le organizzazione della sinistra sono disgregate, poco radicate, non ci sono i quadri di partito o del sindacato a gestire le mobilitazioni. Non c’è il peronismo argentino tantomeno il chavismo venezuelano: “La protesta cilena è spontanea e a volte violenta, anche se ovviamente la maggioranza dei manifestanti è pacifica, ma c’è comprensione per chi alza l’asticella dello scontro, perché la repressione dei militari è insostenibile, ci trattano come fossero al fronte, come se noi fossimo un invasore straniero”. L’assetto tipico delle manifestazioni cilene assomiglia a ciò che si è visto in Europa con i gilets jaunes. Con un età media più bassa tra i manifestanti, con radici storico-politiche diverse, e senza la componente di estrema destra che c’è stata in Francia.

 

Stando ai dati dell’Istituto nazionale per i diritti umani cileno, le morti accertate sono diciotto, per cinque delle quali l’istituto sta verificando se siano conseguenti ad azioni illegittime delle forze di polizia; i manifestanti detenuti sono più di quattromila, quasi 500 sono adolescenti, mentre sono arrivate a 180 le denunce di tortura sporte contro la polizia locale. Tra queste, le sevizie inflitte a Josué Israel Maureira, studente di medicina alla Cattolica, 23 anni, è stato picchiato e violentato con un manganello il 21 ottobre da tre funzionari di polizia del cinquantunesimo distretto.

 

Andrés Soffia ha fatto parte del gabinetto del ministero dell’Istruzione durante il governo di centro-sinistra di Michelle Bachelet, ha lavorato ai disegni di legge sui diritti delle minoranze e della comunità LGBT. “Quello di Josué Israel è un chiaro esempio di detenzione illegittima e tortura sessuale, io ho rappresentato il Cile in varie organizzazioni internazionali, oggi collaboro con l’Istituto per i diritti umani cileno, posso affermare che non si tratta di un caso isolato: è grave l’immunità di cui godono Carabineros e militari, tra loro c’è ancora chi ha un’idea dell’autorità statale di tipo pinochettiano”. Soffia ha lavorato con l’ex presidente Bachelet, oggi alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite: in Cile servirebbe l’intervento dell’Onu? “Già oggi collaborano a distanza con l’Istituto, ma sì, devono poter entrare nel paese anche osservatori completamente esterni”.

 

Anche Luciano Cruz Coke, l’ex ministro di Piñera, è d’accordo: “Il Cile è un paese dell’Ocse, non è una dittatura né una zona di conflitto, ma se qualcuno ritiene che siano stati lesi i propri diritti fondamentali deve avere tutte le garanzie per proteggersi dalle eventuali violazioni. Anche il presidente Piñera accetta, anzi richiede, l’intervento delle Nazioni Unite, ed è ragionevole che su questo si sia reso disponibile”.

 

 

C’è poi il caso Herrera, immigrato peruviano trovato carbonizzato in un supermarket. Secondo la ricostruzione della commissione diritti umani di Asamblea Plaza Yungay – in contatto con la sorella della vittima che era presente al momento della sua morte – durante l’autopsia sarebbe stato rinvenuto un proiettile non completamente fuso. L’ipotesi è che sia stato ucciso con un colpo di fucile, dai militari, e che il cadavere sia stato disteso nel negozio in fiamme solo dopo.

 

Tra i bersagli dei manifestanti c’è il modello economico “neoliberista” dei Chicago boys. Sicuramente la condizione socio-economica di un giovane cileno è migliore rispetto a quella di un collega argentino, peruviano, o venezuelano. L’economia cilena è la più solida dell’America Latina, e la più ricca. Ma le frustrazioni di ogni movimento sono tipiche delle condizioni ambientali che hanno contribuito a generarlo. “C’è chi sta peggio” non è mai stata un’argomentazione politica adeguata per sedare una rivolta. In Cile il 15 per cento degli studenti universitari può usufruire di corsi pagati dallo stato, uno studente su dieci paga il 70 per cento delle spese e ha un contributo pubblico per la quota rimanente, mentre l’80 per cento degli universitari sostiene interamente il costo della propria istruzione, spesso indebitandosi. Tra i paesi dell’Ocse il Cile è quello dove il rapporto tra spesa privata e spesa pubblica per l’istruzione è più alto, superiore agli Stati Uniti d’America. Le tasse universitarie, in valore assoluto, sono le più onerose dopo Inghilterra e Stati Uniti. Ma, ad esempio, lo stato cileno è quello che, dopo i paesi scandinavi, investe di più in asili, diciotto posizioni avanti alla Germania. La precarietà del lavoro è inferiore a quella italiana, gli studenti iscritti all’università sono – in proporzione – più che negli altri paesi del Centro e del Sud America, e più che in Italia.

 

Nella ribellione al modello economico, c’è qualcosa di più profondo e simbolico: la sua origine. La convinzione diffusa – tra chi protesta – di un difetto di legittimità.

 

Tra gli slogan di chi protesta c’è la richiesta di più spesa pubblica e maggiore protezione sociale, ma soprattutto una nuova Costituzione, e la messa in stato d’accusa del presidente e del ministro dell’Interno. 

 


L’economia cilena è la più solida dell’America latina, e la più ricca. Ma “c’è chi sta peggio” non serve a sedare una protesta 


 

 

Nel 1973, fino all’11 settembre, il Cile è governato da un socialista, Salvador Allende. Palacio de La Moneda, la sede del governo, viene bombardata dal generale Pinochet. Che inizia una serie di riforme, garantisce nuovi privilegi ai militari (ancora oggi esonerati dal pagare molti servizi, tra cui proprio il trasporto), rivoluziona l’assetto costituzionale e il modello economico del paese. Il suo ministro del Lavoro è José Piñera – fratello dell’attuale presidente – economista illustre, che chiama come consulenti i Chicago boys: un gruppo di giovani cileni che studiano economia all’Università di Chicago con Milton Friedman. Nel 1980 viene privatizzato il sistema pensionistico e l’istruzione superiore, il sistema sanitario pubblico cura gratuitamente solo gli over 60. Con l’entrata in vigore della riforma Water Code, le risorse idriche cilene gestite da privati passano da meno del 5 per cento a oltre l’80.

 

A quei tempi Sebastián Piñera è un imprenditore, è favorevole al regime, lo è anche Andrés Chadwick Piñera, ministro dell’Interno fino al 28 ottobre e parente dell’attuale capo di stato. Sono i due uomini di cui si chiede l’impeachment.

 

 

La ricchezza del Cile è aumentata esponenzialmente negli ultimi trent’anni, questo ha contribuito a mantenere un assetto politico stabile, ma il paese è rimasto indietro sul fronte della mobilità sociale e dello sviluppo di una classe media, che sono i due elementi fondamentali senza i quali nessun equilibrio regge nel lungo periodo”, è l’analisi di Pierpaolo Barbieri, argentino, storico dell’economia laureato ad Harvard e fondatore di Ualà, la più importante banca virtuale d’Argentina finanziata da George Soros. 

 


 Nella ribellione al modello economico c’è qualcosa di più profondo: la sua origine. La convinzione di un difetto di legittimità 


 

Una nuova Costituzione è l’obiettivo di Fernanda Poblete, 38 anni, in piazza tutti i pomeriggi dal 18 ottobre: “Il governo non sa neanche chi siamo, ed è un problema, visto che siamo centinaia di migliaia ogni giorno”, da Santiago a Concepción, da Antofagasta a Valparaíso. “Lo si capisce da quello che hanno detto quando è iniziata la ribellione, sono più inconsapevoli che arroganti”. Per Fernanda, esiste un problema di rappresentanza: “Non sanno cosa sia la classe medio-bassa, ci chiamano alieni, lo avranno mai visto un mulatto?”. Tutti i membri dell’esecutivo sono caucasici, mentre la popolazione del Cile è composta per il 22 per cento da bianchi, per il 72 da meticci. “Il nostro governo ammira così tanto l’America. Ma gli americani hanno We, the people of the United States”. Fernanda cita l’incipit della Costituzione americana: “E’ troppo ambizioso sperare in regole comuni, in Nosotros, el pueblo de Chile, para formar una unión más perfecta, establecer la Justicia y asegurar la Tranquilidad doméstica?”. Che vuol dire: noi, popolo del Cile, al fine di perfezionare la coesione sociale, garantire la Giustizia e ottenere la Tranquillità nel paese. 

 

“Per riportare un po’ di pace in Cile ci vuole una legittimazione del potere politico, una nuova Carta, quella che abbiamo oggi – con piccoli accorgimenti – è quella del 1980 voluta da Pinochet”, racconta al Foglio Daniel Matamala, analista politico e giornalista di Cnn Chile. Aggiunge: “Non credo che abbia alcuna utilità accusare il presidente e l’ex ministro, anche perché ci vorrebbero i due terzi del Senato, un’ipotesi francamente impossibile: ma è arrivato il momento di dare al popolo cileno una Costituzione scritta in democrazia, non in dittatura”.