Gabriel Boric, la svolta a sinistra del Cile sempre più polarizzato

Cecilia Sala

E’ dal golpe dell’11 settembre 1973 che non si vedeva una proposta politica tanto vicina al socialismo di Salvador Allende come quella del nuovo presidente, che ha battuto José Antonio Kast. Quello che dicono gli elettori del nostalgico di Pinochet adesso è: “Faremo la fine del Venezuela”

Ieri per le strade del Cile si cantava “El pueblo unido jamás será vencido”. La voce degli Inti Illimani, sparata a tutto volume, arrivava dalle finestre e dagli stereo delle macchine. Che l’eccezione cilena fosse finita lo sapevamo da quando al ballottaggio di domenica sono andati un candidato di estrema destra e un outsider della sinistra movimentista alleato con il Partito comunista. Ha vinto il secondo, il millennial Gabriel Boric ha battuto il nostalgico di Pinochet, e sarà il nuovo presidente del Cile. 

 

E’ dal golpe dell’11 settembre 1973 che non si vedeva una proposta politica tanto vicina al socialismo di Salvador Allende come quella del nuovo presidente, che si insedia a marzo. E, dai tempi del ritorno alla democrazia, nessuno aveva osato presentarsi con un programma tanto simile a quello di Pinochet come ha fatto Kast. Lui piace molto a Donald Trump e a Matteo Salvini, nel fine settimana ha ricevuto gli auguri affettuosi di entrambi. 

 

Tutti e due i candidati con l’avvicinarsi del ballottaggio hanno smorzato i toni: semplicemente gli estremi erano già coperti, la caccia agli ultimi voti andava fatta al centro. Boric per esempio ha chiesto scusa per “l’arroganza generazionale” da parte sua e dei suoi compagni ai cristianodemocratici, a cui in passato ne aveva dette di tutti i colori, e questa mossa gli è servita a prendersi quei voti. Dopo lo spoglio ha festeggiato e poi ha parlato al telefono con il presidente uscente Sebastián Piñera, promettendogli che sarà “il presidente di tutti i cileni”. Ma non è vero, e lui lo sa. Il Cile democratico non era mai stato tanto diviso e polarizzato come adesso e gli elettori ex moderati che negli ultimi tempi si sono radicalizzati a destra, votando per Kast, sono tanti (il 44 per cento). Odiano Boric e quello che dicono adesso è: “Faremo la fine del Venezuela”. 

 

Il Cile – che da trent’anni era l’esempio (decisamente isolato) di una democrazia liberale, solida, stabile e tranquilla in America latina, che non faceva scherzi e non regalava mai particolari sorprese – è sparito. E insieme quelli che lo governano da quando, nel 1990, è tornata la democrazia dopo diciassette anni di dittatura militare. Al primo turno sono andati malissimo prendendo la metà dei voti che erano abituati a raccogliere, o meno della metà. Alcuni dei maggiori esponenti in quelle ore annunciavano, un po’ imbarazzati, il loro ritiro definitivo dalla vita pubblica. Come Sebastián Sichel, il candidato alla presidenza della coalizione di centrodestra che era già stato ministro e presidente della Banca centrale, e che è arrivato quarto. Perché al primo turno delle presidenziali anche il terzo posto era andato ad un outsider e un populista, Franco Parisi, e questa è stata l'umiliazione definitiva per la classe dirigente delle formazioni politiche tradizionali. Sapevano in partenza che per loro queste elezioni sarebbero state le più difficili di sempre, ma “peggio di così non poteva andare” si sono detti, a spoglio finito, nei comitati elettorali del centrodestra e del centrosinistra che – con la candidata Yasna Provoste – si è guadagnato solo il quinto posto. Il loro tracollo era cominciato due anni prima, quando el Chile despertò (il Cile si è svegliato) – direbbero i protagonisti delle proteste che hanno sconvolto il paese alla fine del 2019 e che, con diverse intensità, sono continuate fino ad oggi. Nonostante la pandemia e il coprifuoco lì arrivato molto prima, e per gli scontri violenti e continui, non per il Covid. Allora – per la prima volta dalla dittatura e secondo la peggiore tradizione latinoamericana – era stato schierato l’esercito non contro un nemico esterno ma nelle strade, contro i cittadini.

 

Nella capitale l’atmosfera era apocalittica e festosa allo stesso tempo. C’era la musica e tantissimi giovani per le strade, le bandiere colorate della minoranza indigena Mapuche, la danza delle femministe che aveva fatto il giro del mondo e le scritte con le bombolette spray fluorescenti che coprivano ogni centimetro quadrato dei muri nel centro della città. Ma poi c’erano camionette e militari ovunque, carcasse di automobili date alle fiamme, palazzi di dieci piani incendiati, vetrine dei supermarket in frantumi, passamontagna e picconi abbandonati sull’asfalto. Sui muri, tra le scritte colorate, c’erano anche tantissimi manifesti che ritraevano il presidente Piñera ghigliottinato. E poi sulle serrande dei negozi e anche sulle fiancate delle automobili compariva un altro degli slogan della protesta, quello contro il patriarcato: “Un macho morto non stupra!”. 

 

Con la vittoria del trentacinquenne Boric quei manifestanti hanno fatto all-in. Adesso la direzione del Cile è chiara ed è una netta virata a sinistra. Se avesse vinto Kast il nuovo assetto istituzionale sarebbe stato schizofrenico: al palazzo presidenziale un populista di estrema destra che promette legge, ordine e repressione mentre la nuova Costituzione la stanno scrivendo i manifestanti, che Kast considera più o meno dei terroristi. Gabriel Boric – in una versione più barricadera dell’attuale – è stato uno dei volti della protesta e insieme ai suoi compagni, dalla piazza, aveva chiesto un referendum per abrogare la vecchia carta costituzionale. Il presidente di centrodestra Piñera prima ha risposto che non se ne parlava affatto, poi ha capito di dover fare i conti con la forza e la determinazione dei manifestanti, e anche che il pugno di ferro dell’esercito non li avrebbe fermati. Doveva cedere, così viene indetto il referendum sulla Costituzione. In quei giorni accadono due episodi che sconvolgono tutti i cileni. Il primo: i manifestanti incappucciati entrano con la forza nella chiesa gotica di San Francisco de Borja, a Santiago. Spaccano le statue dei santi e le madonne con delle mazze, danno fuoco all’altare e poi alla struttura: crolla il campanile inghiottito dalle fiamme. Il secondo: c’è un troncone del corteo che sta sfilando su un ponte, un militare ventenne prende dalle gambe un manifestante di sedici anni e lo butta di sotto mentre decine di giovani lo riprendono con i telefonini. Il ragazzino ha tutti gli arti fratturati, lividi ovunque e un'emorragia cerebrale molto grave, ma sopravvive per miracolo. 

 

Il Cile è sotto shock, non è proprio abituato a questo genere di cose. E’ un posto sicuro, con il più alto reddito pro capite del subcontinente e uno dei paesi con le diseguaglianze economiche minori. E’ sempre stato governato dall’alternanza tra moderati di centrodestra e centrosinistra con una dinamica politica prevedibile, percepita come rassicurante o noiosa, comunque senza grandi smottamenti. Lo stato investe moltissimo negli asili, invece il sistema pensionistico, sanitario e universitario è quasi completamente privato. L'economia è in salute, ma chi fa un lavoro a basso reddito difficilmente riesce a mettere da parte quello che serve per un fondo pensione, e quando diventa anziano una pensione vera e propria non ce l’ha. Se poi è nato in un quartiere povero, la sua aspettativa di vita è di diciotto anni inferiore a quella di chi vive nei quartieri ricchi di Santiago – lo dice uno studio pubblicato da Lancet nel 2019. Ma di proteste così non se n’erano mai viste. Il Partito comunista (fino all’alleanza vincente con Boric) non si era più affacciato sulla scena politica e sembrava che il capitalismo fosse un sistema accettato da tutti. Poi migliaia di persone hanno cominciato a gridare cori contro le multinazionali e anche “Morte all’Enel!”, “Morte alle Generali!”. Per quanto riguarda la prima, hanno anche dato alle fiamme la sede nel centro di Santiago. Molte delle grandi società italiane sono leader nel proprio settore in Cile.

 

Episodi come quelli di San Francisco de Borja e del ragazzo scaraventato giù dal ponte hanno messo una gran paura a tutti. E dopo la paura è arrivata la rabbia che con i mesi si è trasformata in rancore, verso l’esercito e verso il governo, oppure verso i manifestanti. Insieme al caos prolungato, ha radicalizzato le posizioni degli elettori sia da una parte che dall’altra. Chi semplicemente simpatizzava con i manifestanti, davanti alla strafottenza e agli abusi della repressione ha trasformato l’avversione politica verso l’establishment in un odio cieco. Genitori tutt’altro che estremisti – con figli adolescenti che tornavano a casa dopo i pestaggi nelle caserme, o che sparivano per giorni senza che nessuno ne desse notizia – hanno cominciato ad odiare partiti che fino a poco tempo prima votavano. In quella fase la protesta era molto potente e il suo consenso era ancora molto alto ma, sottotraccia, cominciava a montare anche il fronte di quelli che giustificavano i militari e a cui la risposta con il pugno di ferro non dispiaceva affatto. Chi stava facendo questo ragionamento solo pochi anni prima avevano votato il candidato del centrodestra Piñera e lo avevano eletto presidente. Ma lui li aveva traditi: aveva ceduto. Non voleva farlo, quei manifestanti che sua moglie ha definito “degli alieni”, che lo ritraggono ghigliottinato e dicono se busca cesante o muerto (si cerca dimissionario o morto) evidentemente non gli piacciono affatto. Ma Piñera doveva gestire un’emergenza nazionale (anzi due, visto che intanto c’era una pandemia) ed evitare un’escalation della protesta che ormai veniva percepita come qualcosa di simile a una guerra civile. Il presidente ha accettato di fare lui il primo passo verso i manifestanti nella speranza di calmare gli animi, e ha smesso di opporsi al referendum sulla Costituzione. La sua previsione era azzeccata: dopo il referendum, le manifestazioni non sono più state altrettanto violente e gli esempi della brutalità dei militari si sono fatti meno frequenti. Il costo politico per lui è stato alto: molti degli storici sostenitori di Piñera hanno visto solo il tradimento, non la relativa pace appena ritrovata. Hanno pensato che avesse consegnato la vittoria a dei giovani troppo agitati e ai loro mentori tra gli anarchici e i comunisti. Hanno cominciato a guardarsi intorno alla ricerca di un nuovo rappresentante delle proprie istanze, e hanno guardato molto più a destra. Lì dove presto avrebbero trovato José Antonio Kast.

 

Si va a votare e i quesiti del referendum sono due. Innanzitutto si deve decidere se abrogare la Costituzione oppure no. Qui il risultato era abbastanza scontato, infatti viene abrogata con oltre l’80 per cento dei voti. Sul secondo punto l’esito era più incerto, si chiedeva agli elettori di scegliere tra un’assemblea costituente mista, con un po’ di semplici cittadini che avevano preso parte alle proteste e un po’ di parlamentari, di uomini delle istituzioni abituati a lavorare sui disegni di legge. Oppure un’assemblea dove i rappresentanti delle istituzioni sarebbero stati estromessi, e di scrivere la nuova Carta si sarebbero occupati solo cittadini che non hanno mai visto una proposta di legge e neppure un’ordinanza comunale. Quelli del movimento studentesco capitanato da Boric e quelli molto arrabbiati ma che non avevano mai avuto niente a che fare con la politica. 

 

La classe dirigente cilena si augurava che, almeno, a scrivere la nuova carta sarebbe stata l'assemblea composta anche da parlamentari. Doveva essere un’occasione di riconciliazione tra cittadini e istituzioni e altrimenti, pensavano: non si tratta più di una riforma costituzionale radicale, ma di una vera e propria rivoluzione. Rivoluzione fu. Con il loro voto i cileni hanno deciso che nella nuova assemblea costituente i parlamentari non avrebbero messo piede. Solo cittadini eletti e democrazia direttissima. Poco dopo, si sarebbe tornati a votare per scegliere quei rappresentanti. 

 

Si candidano i manifestanti e si affastellano le istanze populiste più disparate. Tra loro viene eletto anche uno dei personaggi più iconici delle proteste: Pikachu, il Pokémon. Dentro al costume gonfiabile giallo acceso di Pikachu, presente a ogni corteo, c’è una donna di quarantasei anni che fa l’autista di scuolabus e si chiama Giovanna Grandón. Viene da un quartiere povero di Santiago ed è cresciuta in uno squat, un locale occupato. Pochi giorni prima dell’inizio delle manifestazioni le era successa una cosa bizzarra. Suo figlio Diego si trovava nella sua stanza mentre lei e il marito stavano cenando con degli amici in cucina. Diego si era portato in cameretta il telefono del padre, dove c’era salvata la sua carta di credito. Nessuno sa perché, e cosa sia passato per la mente di Diego quella notte, ma va sul sito di un rivenditore autorizzato e compra una montagna di gadget di Pikachu di ogni genere e dimensione per un totale di oltre settecento dollari. Quando i genitori lo scoprono, sgridano Diego e poi si disperano. Non si possono proprio permettere acquisti per quelle cifre, figuriamoci poi se si tratta di un esercito di peluches, gonfiabili e costumi carnevaleschi a forma di topo giallo. Intanto la casa viene inondata dai pacchi, per rivedere un po’ di soldi i genitori di Diego iniziano a rivendere tutto quello che riescono facendo una campagna porta a porta in giro per il quartiere. Tengono solo un enorme costume giallo che avrebbero potuto usare per Halloween, a cui mancavano solo poche settimane. Ma l’inizio delle proteste arriva prima, e Giovanna Grandón decide di presentarsi con quel costume per portare un po’ di “leggerezza” e “allegria” nei cortei. In quel momento, non si può neanche immaginare come sarebbe cambiata la sua vita – e il suo paese – di lì a poco. All’inizio non era convinta di essere la persona giusta per scrivere la nuova legge fondamentale dello stato, diceva: “Non ho studiato, sono cresciuta in uno squat, quelli come me non entrano in politica”. Poi ha messo da parte la timidezza. Ora – mentre Boric inizia ad abbozzare le sue proposte di riforme di stampo socialista – a Giovanna Grandón spetta scrivere la Costituzione. Il problema è che, al momento, non assomiglia tanto a un sistema organico di regole e principi, ma piuttosto a una lista dei desideri. Anche all’Assemblea costituente, Giovanna Grandón si presenta sempre e solo vestita da Pikachu.